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Se solo la nostra non fosse la più indegna e rovinosa tra le stirpi!
Quale altra specie terrestre ha mai inflitto più distruzione di quella umana, così caparbiamente devota al proprio diabolico piano assassino e lucidamente rapita dalla sua stessa, planetaria frenesia sado-masochista? Non occorre essere imbevuti di particolari nozioni storico-filosofiche per dare risposta a questo elementare quesito. Altrettanto innegabile è come praticamente chiunque sia fermamente deciso a negare fino all’ultimo dei suoi giorni che ciò costituisce un reato ripugnante e, di più, a giurare che sia frutto di un ineffabile destino, quando non di un qualche incolpevole ed insopprimibile istinto.
La storia dell’isola di Rapa Nui è talmente recente da essere quasi cronaca. Talmente cristallina che sarebbe imbarazzante puntualizzare l’ovvietà del paradigma al quale ci ha messi di fronte. Larghissima parte della vita sull’isola fu polverizzata nell’arco di una manciata di secoli. Morale trattane? Nessuna. Avanti un altro.
Benché lo sguardo severo dei moai sia rimasto come a pesante ed ignorato promemoria (prefazione?) dell’estinzione collettiva, non sono i busti lavici l’unico esempio di arte monumentale cilena. Senza andare a scomodare la musica tradizionale dei mapuches/araucanos e senza dimenticare che Claudio Arrau è stato uno dei pianisti più grandi del secolo scorso, credo che sia parte dei requisiti culturali minimi dell’utente base di questa rivista sapere che è proprio in una cittadina non distante da Santiago ad esser nato e vissuto il bassista del gruppo thrash metal statunitense più – per l’appunto – monumentale di sempre. La scena cilena è piccola e tenace. Forse qualcuno si ricorda anche di Pentagram (sì, quelli omaggiati su Leaders Not Followers con un missile a nome “Demonic Possession” e che hanno poi fornito Anton Reisenegger a Lock Up e Brujeria), Torturer (sì, quelli che suonavano le scope nella foto di Kingdom Of The Dark, loro parte del disco condiviso coi folli Misanthrope, A.D. 1991) o Criminal (sì, ancora con Reisenegger di mezzo). Bisogna ammirare chi si dedica anima e corpo a progetti musicali di questo tipo in terre distanti dai soliti mercati, senza mostrare segni di cedimento. I Poema Arcanvs hanno attraversato i decenni, sotto più di un nome e di un’inclinazione, e sono oggi un sicuro riferimento per il doom death prima sudamericano e poi internazionale.
Ennesimo figlio del filone britannico, Stardust Solitude colpisce davvero nel segno. Colpisce seriamente e non è facile di questi tempi. Colpisce chi non usa le note a cuor leggero. Colpiscono un chitarrista sicuro dei propri mezzi e dotato di un ingente eclettismo; una prova ritmica cardinale e priva di pecche – e parliamo di cuore, non di porcherie di studio – anzi, sia messo agli atti che, dopo trent’anni di massificati insulti digitali, finalmente è concesso il dimenticato piacere di godere di una batteria genuina e della mano di chi c’è dietro –; e colpisce un cantante che porta il brano con grande tecnica e sicurezza melodica (“Haven” ne è fulgido esempio). Non ultimo, benché spesso in sordina per naturale elezione nella musica popolare moderna, il basso si rende un tassello insostituibile in pezzi come “The Lighthouse Keeper” e “Straits Of Devotion”.
Non è indispensabile sviscerare un disco solido come questo, imperlato di arrangiamenti fluidi e tendenze progressive: sappiate solo che dopo la bella e articolata canzone d’apertura, omonima dell’album, non ci si sarà nulla da rimpiangere sino alle note finali di “Brave”. Complimenti, ragazzi.
Per chi segue con passione l’operato di Profound Lore, Grau, Firebox ed etichette simili.
Tracce:
01. Stardust Solitude
02. Orphans
03. Haven
04. The Lighthouse Keeper
05. Straits Of Devotion
06. Pilgrim
07. Kingdom Of Ruins
08. Brave
Formazione:
Claudio Carrasco: voce
Juan Díaz: basso
Igor Leiva: chitarra
Luis Moya: batteria
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