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A tre anni da Cracksleep, tornano i toscani Eldritch con un nuovo lavoro di tutto rispetto. Chiariamo subito una cosa: questo è uno dei gruppi italiani di cui dobbiamo essere davvero orgogliosi. Da trent’anni produce musica di alto livello e sono convinto che questi ragazzi avrebbero meritato, e meritano, un maggior successo internazionale.
Questo Eos segna anche il ritorno in studio di Oleg Smirnoff (rientrato in formazione nel 2019), loro storico tastierista.
In questi ultimi tre decenni ho sempre seguito e apprezzato i cambiamenti di pelle degli Eldritch. Quello che mi ha sempre colpito del gruppo capitanato da Terence Holler ed Eugene Simone è il fatto di non essere fautore di un tecnico e freddo progressive metal: il combo infatti, le cui qualità musicali sono indubbie, riesce a combinare in maniera accattivante cambi di tempo, melodie ed aggressività senza risultare mai noioso e coinvolgendo sempre l’ascoltatore con passaggi molto orecchiabili e godibili (“No Obscurity”, un pezzo, non l’unico, con alcuni passaggi che mi hanno ricordato -anche- i più recenti Dark Tranquillity).
Questa scelta ha loro permesso di costruire un loro suono ben definito e riconoscibile. I loro pezzi, inoltre, trasmettono emozioni e hanno decisamente anima (basti pensare alla stessa “Eos“). Questa loro peculiarità penso che sia da un lato caratterizzata dalle sonorità volute da Simone, dall’altra il frutto di quel quid che mi ha sempre affascinato in questo gruppo e che solo una voce particolare come quella di Holler riesce a dare: la sua teatralità, la sua delicatezza, la sua potenza – e l’uso intelligente e mai fastidioso del vibrato – la rendono facilmente riconoscibile e, alle mie orecchie, unica.
Il disco è ben prodotto e trova i suoi punti di forza in pezzi come “Failure Of Faith” (fra i miei preferiti, mi ha ricordato, più di altri, i primi album), “The Awful Closure“, “Fear Me” (un pugno e una carezza contemporaneamente) e “Circles” (secondo singolo di questo disco).
“The Cry Of A Nation” (primo singolo di Eos) e “Sunken Dreams” (oltre undici minuti che volano via senza che uno se ne renda conto) racchiudono l’essenza di questo lavoro. Infine una menzione speciale anche alla ballad “I Can’t Believe it“, altro fra i pezzi favoriti, dove la voce di Holler raggiunge la sua massima intensità.
L’album si chiude con una eccellente e per me inaspettata cover di “Runaway” dei Bon Jovi: una vera e propria ciliegina sulla torta.
Da batterista, inoltre, non posso che rimanere sempre ammirato del lavoro impeccabile di Raffahell Dridge.
Che dire, se non che non possiamo essere che orgogliosi di questo nostro gruppo? Album fortemente consigliato. Ora non ci resta che attendere di poterli rivedere dal vivo.