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Definitivamente smarriti per imperscrutabili itinerari cosmici e risucchiati da forze interplanetarie.
Relegate all’angolo le sonorità ultra-sperimentali di certo passato remoto, non c’è forse mai stata così tanta quiete e normalità in casa Haiku Funeral. Una quiete tremante. Cronache di rivoluzioni celesti. Di creazione e di distruzione; di fantasie liquide, musicate in spazialità progressivamente ambientali e ambientalmente progressive. Non è in fondo naturale che sia il rapimento il risultato di anni di parole e musica intrise di droghe, sesso, mitologia e sogni ad occhi spalancati?
Sette dosi. Sette sorsi.
Con voce mai assente, l’opera si svolge quasi come fosse un’unica composizione suddivisa in movimenti. Apre come un paesaggio sonoro galattico e industrialoide. Procede tra nebulose e fumi speziati, seducenti; una batteria organica; un primo volo nel grembo di un universo sintetizzando. Avanza spogliandosi: le note si dilatano, si rarefanno mentre l’apparato percussivo si sbriciola; poi torna alla musica d’ambiente – senza evitarne il lato oscuro. Chiude assecondata da fraseggi al fretless, suonato a mo’ di sitar, come ad assicurarci che uno dei modi migliori di modellare il presente è utilizzando il passato.
Loro sono sempre il bulgaro Dimitar Dimitrov e lo statunitense William Kopecky, risiedono ancora in Francia e sono alla settima uscita col nome di Haiku Funeral.
Per chi mal tollera i ritornelli.