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Patrick Walker, una delle migliori e più espressive voci del panorama musicale tutto.
40 Watt Sun, una delle creature più interessanti e strane che il mondo metal abbia partorito. La “band” nasce nel 2009, come figlio illegittimo dei Warning, altra creatura di Walker e, almeno inizialmente, ne segue quasi pedissequamente le orme.
Il primo disco sembra la continuazione naturale di ciò che con il gruppo primigenio era stato fatto, quasi un seguito a quel capolavoro di incredibile bellezza e sofferenza dal titolo di Watching From A Distance. Semplicemente uno degli album più propriamente doom che io abbia mai ascoltato.
The Inside Room portava avanti questo discorso, senza allontanarsene troppo e senza volersi nascondere dietro ad un dito, ma dicendo a tutti che era cambiato qualcosa, senza di fatto cambiare nulla.
Passano cinque anni ed esce sul mercato Wider Than The Sky. Ordinato senza pensarci, credendo di trovarmi di fronte al degno seguito del lavoro del 2011, mi arriva un pugno in faccia: la voce è sempre la sua, ma non c’è più nemmeno una chitarra distorta, non riesco a digerirlo e i primi ascolti distratti non mi dicono nulla di che. Lo accantono. Passano i giorni e i mesi e poi decido che devo dare una possibilità a questo disco, perché non può essere così scadente.
E infatti non lo è. Ad un ascolto finalmente attento e senza pregiudizi, ne esce una nuova realtà. Il nostro prende il lavoro che sa fare meglio e lo porta nella dimensione dell’acustico e del pulito. Di fatto adopera lo stesso metodo compositivo, lo stesso modo di suonare, di cantare, di porsi, ma fa tutto senza una chitarra distorta. Per tutto l’album.
Ne esce un disco semplicemente splendido, molto delicato, ma anche struggente e molto doom nelle intenzioni, pur non avendo quasi più nulla del genere di origine in termini stilistici.
Ebbene, arrivati al 2022, il processo di alleggerimento dello stile e delle sfaccettature del materiale di Patrick Walker sta continuando progressivamente. Senza sosta.
Anche in questo caso, ho dovuto sbatterci la faccia, perché il primissimo (distratto) ascolto del singolo rilasciato non mi aveva lasciato nulla nell’animo e invece mi aspettavo di essere colpito. Fortunatamente, l’impellenza di una recensione mi ha obbligato a non far passare i giorni e i mesi che lasciai passare a far prender la polvere al precedente lavoro.
In Perfect Light, Walker porta avanti il suo discorso e compone un album uscendo ulteriormente dagli schemi, lasciandosi alle spalle il distorto, ma anche il modo di comporre e il suo cantato quasi urlante e sofferente, a beneficio di un’ulteriore gentilezza e semplicità. Senza per questo scadere però nel pop o nella banalità, ancorandosi alle proprie origini tramite una sorta di sana prolissità e dilatazione dei temi trattati (sia musicali sia testuali).
“Colours“ è un po’ lo spartiacque dell’opera. Un “quasi” intermezzo che ci porta nella seconda metà di Perfect Light, che si apre con un racconto di dieci minuti, molto delicato, a tratti ipnotico, ma sempre molto leggero e che cavalca sonorità più aperte, leggiadre, positive rispetto al trittico iniziale.
Se infatti i primi tre pezzi sono più cupi nell’intenzione, “The Spaces In Between” è un pezzo con influenze più pop, folk e alternative-rock degli altri. Con un pianoforte presente, quasi preso in prestito da Norah Jones, mi ha ricordato qualcosa dei Beatles e di altri cinquant’anni di rock.
Con “Raise Me Up” torniamo alle atmosfere dell’inizio e la cosa coincide anche col primo pezzo in cui viene usata effettivamente la batteria. Ne esce la canzone con il finale (diciamo più di metà brano) più energico del lotto.
Torniamo alla delicatezza più pura e semplice con le ultime due tracce, una quasi con un piglio jazz da camera e l’ultima quasi una ninna nanna, da finale in tutto e per tutto.
Difficile dover dare un giudizio univoco a questo album, perché è ovvio che faticherò a consigliarlo a chiunque non sia avvezzo al materiale prodotto da questo Inglese tutto voce e sofferenza. E ancora, nemmeno a tutti gli eventuali fan irriducibili della chitarra distorta.
Qui siamo di fronte ad un lavoro che parte da un principio molto lontano, da cui si è percorsa molta strada, dove non batteva il sole perché la sofferenza faceva rinchiudere tutto in una caverna di terrore e disperazione. Con gli anni, piccoli spiragli di luce si sono affacciati prima alla bocca della caverna, poi l’hanno irraggiata e poi l’abitante ha deciso di venirne fuori. A poco a poco… Per arrivare ora ad immortalare la perfetta luce di speranza che gli ha permesso di uscire dall’oscurità.
Non per questo aspettatevi un album gioioso e felice, scanzonato o divertito, ma è chiaro che la speranza ha fatto breccia in Patrick Walker e che il nostro, pur col cuore pesante, ci narra delle sofferenze e del male di vivere, dell’amore e della perdita, con in più un tocco di speranza.
Così, tra un passaggio di pianoforte, una spruzzata di folk (quello americano, quello acustico), un’atmosfera sussurrata e la voce del nostro, arriverete alla fine stravolti dalla fatica e dal peso delle emozioni. Ma ne sarà valsa la pena, se avrete voglia di dargliene la possibilità.