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Maledetta melma. È tutt’attorno, involge ogni passo mentre l’odore di fradicio satura le narici, giungendo dai meandri delle paludi che lambiscono il cemento delle città. Appena fuori dai centri abitati ci si perde in un dedalo di canali, tra cipressi calvi che sembra spuntino dal muschio, tanto è verzicante ed immota la superficie degli acquitrini. È un ecosistema totalizzante il bayou, che penetra nell’anima dai pori come foschia mattutina, un ambiente in cui anche i suoni trasudano limo, inzaccherati da una poltiglia blues che cola torpida su distorsioni metal e foga hardcore.
La dicitura sludge sotto il cartello “Louisiana” altro non è che toponomastica di derivazione, con effetto retroattivo, unificante; tradizioni e luoghi sovrappostisi per gradi divengono inscindibili agli occhi – e alle orecchie – della moderna critica generalista, che accomuna entità vicine e lontane come Graveyard Rodeo e Crowbar, Eyehategod ed Acid Bath. Sedevano accanto a questi pionieri gli Stressball, autori di un unico, omonimo album, che attualizza il tragitto delle bande marcianti nei funerali d’inizio novecento a Nuova Orleans: si va verso il cimitero ma non si torna indietro, lasciandosi alle spalle solo detriti e polvere.
Così “Dust” è un’apertura premonitoria, che plagia e violenta “High Rate Extinction” aggiungendo il vetriolo di Laviolette (R.I.P. 2020) all’indigeribilità dei giri di scuola Windstein. Per riscattarsi dal raffronto scontato con la congrega del capitano Kirk, suggerito anche dai pastelli di Mitch Nawara, occorrono nell’ordine: i pedali di Joseph “Joe” Fazzio (chi ha detto Superjoint Ritual?) solidali – fin nei suoni cartonati della grancassa – con le dislocazioni ritmiche di Mr. Steve Shelton (micidiale “Column”); i latrati tardyani di Steven Gaille (R.I.P. 2014), mischiati come torba allo sfacelo di mota ferrosa (sentite l’attacco di “Transgressor”); la produzione brulla di Greg Troyer, futuro redattore del dogma “When The Kite String Pops” (1994) e titolare dei rinomati Side One Studios di NOLA… Et voilà. Quando sfuma la sincope doom di “Strain” la melma è già arrivata alla bocca. Non vi resta che inghiottire. E sprofondare.