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I The Ferrymen sono ormai un nome importante del metal melodico europeo, con già due album alle spalle; il primo omonimo del 2017 in particolare, quasi un capolavoro dell’heavy metal. Adesso i nostri eroi ritornano, pronti a traghettare i propri fan sulle nuove, infuocate sponde sonore create per l’occasione, in One More River To Cross. Il gruppo è formato da tre pezzi da novanta: il chitarrista, compositore e produttore svedese Magnus Karlsson (Primal Fear, Free Fall), il cantante cileno Ronnie Romero (Lords Of Black, Sunstorm, Rainbow) e il batterista statunitense Mike Terrana (Artension, Rage, Axel Rudi Pell e altri mille). Partono ancora una volta con l’heavy metal melodico che li ha contraddistinti dall’esordio, aggiungendo ora arrangiamenti più robusti. Lo stile compositivo rimane di tutto rispetto. Il disco apporta sicuramente una grande carica di energia perché si basa su un metal coinvolgente e melodico.
Gli artisti hanno messo da parte i suoni più heavy e power, alleggerendo così le proprie armonie anche se in “City Of Hate” smentiscono in parte questo cambiamento di rotta e puntano su un metal martellante e potentissimo, con Mike che picchia senza pietà e Magnus che infiamma i timpani. Il pianoforte iniziale illude circa lo sviluppo sonoro che prenderà il pezzo.
Si odono delle parti sinfoniche in “One More River To Cross”, brano dotato di un bel ritornello, un coro epico e una voce graffiante.
L’apertura di “One Word” con i sintetizzatori è suggestiva e il brano è significativo di quello che si sente nell’album: voce calda e acutissima, massicci riff e assoli di chitarra, brevi intermezzi strumentali soffusi e rilassanti e, alle spalle, la macchina da guerra guidata egregiamente da Terrana.
La dolcezza e la melodia però sono sempre dietro la porta, come in “The Last Wave”, dal ritornello orecchiabile che strizza l’occhio all’AOR ottantiano. La voce semplicemente da pelle d’oca. Si continua su questa scia nella più robusta “Shut It Out”, brano dal ritmo cadenzato e da continui cambiamenti di tempo, che decelera e accelera una canzone dal ritornello avvincente e dalla grande linea di basso. Qui la chitarra elettrica è sempre protagonista, con assoli veloci e ben eseguiti e a tratti interprete di armonie orientaleggianti.
Questa nuova versione dei The Ferrymen all’inizio sorprende chi li segue dagli esordi, ma piace perché è alla ricerca di qualcosa di più originale rispetto al bagaglio artistico di questo trio delle meraviglie. C’è moderazione e c’è la consapevolezza che si possa creare qualcosa di diverso e di più personale. Insomma qualcosa di riconoscibile. Però ancora l’obiettivo non è raggiunto. Nel complesso i solchi del disco sono tutti interessanti, taglienti, melodici e ottimamente prodotti da Karlsson e missati dal buon Simone Mularoni (DGM, Sunstorm). Tutto ciò si nota nella semi-ballata “Morning Star”, dove la riuscita combinazione di chitarre, tastiere e batteria è qualcosa di sbalorditivo e passionale, per non parlare dell’enorme estensione vocale di Romero, uno che ogni gruppo rock del mondo vorrebbe tra i suoi ranghi.
La sezione centrale del disco non entusiasma più di tanto, a parte l’ambientazione medievale in “Bringers Of The Dark”, che presenta pure cori quasi gregoriani che si incastrano in un suono metal robusto, trascinato da brillanti assoli e da robuste corde vocali. Ci si riprende con le teatrali tracce finali di “The Last Ship” e “The Passenger”, contraddistinte da una tastiera melodicissima e un andamento abbastanza complesso e possente. L’ultima è una canzone metal tenebrosa e grintosa che chiude benissimo il cerchio grazie anche all’interpretazione di Romero.
In conclusione, un bel lavoro discografico, maturo, sapiente, ben studiato e che lascia però qualche dubbio sul cambio stilistico di questi fenomenali musicisti. Era meglio l’indirizzo sonoro più robusto e diretto dell’esordio o questa nuova veste più leggera, melodica e ragionata? A voi l’ardua sentenza!