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Questo potrebbe essere uno degli album di death metal progressivo dell’anno. Forse finanche uno degli album dell’anno tout court. Una promessa taciuta e mantenuta. Difficile pensare di far di meglio in questo campo – un campo minato, fatto di facilonerie, di dilatazioni poco o per nulla sentite, di contrasti perché è à la page squaderdarne. Perché i valori di tutto sono sovvertiti e, franchezza per franchezza, perché rigettare l’abuso di iperboli fa comunque di II un capolavoro. Quando controllo e misura fanno rima con ricchezza di idee, finezza di soluzioni e somma esecuzione, il risultato non può che essere di oggettiva eccellenza. La sola “Celestial” dovrebbe fare – farà! – venire i brividi (d’invidia?) ad Åkerfeldt e compagnia.
Il batterista è un folle, un invasato; un mago dello strumento. Un falegname che lima e ri-lima, che piega e gratta. Che ama il legno e lo cavalca e lo percuote. Per una volta, piatti e tamburi non vengono distrutti da una produzione commerciale e disgustosa: se ne percepiscono l’aria e i muscoli che la fendono, il bronzo e lo stagno. L’unico chitarrista si occupa di due parti diverse ed è proprio come una di quelle lerce coppie di asce rock che suonano complementari con disarmante naturalezza. La voce passa dal pulito (ma nessuna porcheria pop-melodica) al ruvido gutturale, al declamatorio, allo sporco grattato. Nessun passo falso. Nemmeno uno lungo tre pezzi di quasi venti minuti e due che vivono per sei in tutto.
I pezzi son fatti di velocità e giri death americani di quelli cattivi di una volta, parti atmosferiche, rallentamenti magmatici e sezioni acustiche. Senza che l’una irrompa nell’altra senza costrutto, ma come se la Natura stessa lo avesse pianificato da millenni. La Natura – sì: protagonista di una grafica stupenda. Di una copertina priva di didascalie. Fotografie sfocate. Prima la Natura, poi l’Arte, poi l’uomo. Senza irruzioni. Il giusto ordine delle cose.