Visualizzazioni post:130
Se la vacuità avesse un volto, se il tempo un nome e lo spazio una vita. Il corrispettivo desertico di come precedenti ed impalpabili generazioni hanno discorso della pietra, della notte, il cosmo, i fiumi, le foreste ed i ghiacci. E loro di esse. Sarebbe forse non dissimile da Les Gens De Mogador – così chiamarono Essaouira i Portoghesi nel VII secolo e così è rimasto da allora in berbero (ⵎⵓⴳⴰⴹⵓⵔ / Mugadur). Lì ha condotti Petrarca e Di Ciaccio il loro peregrinare di ricerca e – chissà? – magari di fuga. Lì imbrigliati gli echi di un sole bruciante e i suoi consunti figliastri. Tremori elettronici e fasci pelagici.
Laddove il soffio di James Plotkin par radicare “Vanishing Desert Geometries” (ve l’immaginate eseguita da un’orchestra?) e “Fishermen’s Bay” si soffonde di quello e di oceano, un vociare sconnesso e frammenti industrialoidi costellano “Isawiyya” mentre “Buried Under The Sand” osa aspirazioni peteranderssoniane.
Non un disco per il fracasso di quartiere né per cafonate del sabato sera.
الصويرة / ⵎⵓⴳⴰⴹⵓⵔ / Essaouira. Terra di conquista, di culture che si intrecciano, si corrompono, commerciano, decadono, rinascono e nuovamente crollano. Il ciclo della vita, deformato dall’occidentalità. Terra aperta. Di silenzi e suoni. Gli Ab Uno ne catturano la Natura e la natura; ahimè, le arsure. Come a tutto, concedetegli tempo.