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Odio i tributi e le cover perché parto sempre dal principio che la versione originale è sacrosanta e rispecchia il momento storico in cui è stata pubblicata. In più queste operazioni sono solo commerciali o come nel caso del tributo della Frontiers Records a Michael Bolton, anche un modo per pubblicizzare i propri musicisti e in particolar modo i propri cantanti. Sotto quest’ultimo punto di vista l’etichetta italiana riesce bene nell’intento perché, oltre ad avere degli eccezionali cantanti, lascia la produzione all’esperto e bravo Alessandro Del Vecchio. Steel Bars – A Tribute To Michael Bolton è tutto questo, ma per fortuna è anche l’occasione per riscoprire o scoprire il lato rock dell’artista americano. Per chi non sapesse la sua storia, il biondo Michael ha registrato i suoi primi album rock all’inizio della sua carriera. L’omonimo disco del 1983 ed Everybody’s Crazy del 1985 sono dei veri e propri classici dell’AOR ottantiano internazionale. Da Time, Love And Tenderness del 1991, il traditore Bolton comincia a cambiare musicalità e dopo essere partito bene si folgora sulla via di Damasco o del successo passando inaspettatamente al soul, al pop e alle ballate sdolcinate trovando facilmente quello che cercava.
Nell’album sentiamo alcuni artisti emergenti del momento, come: Girish Pradhan (Girish And The Chronicles), Dave Mikulskis (al servizio del veterano Jim Peterik), Sochan Kikon (About Us), Ana Nikolic (The Big Deal), Nevena Brankovic (The Big Deal), Santiago Ramonda (Stormwarning), Stefan Nykvist (Sarayasign), e James Robledo (Sinner’s Blood), che affiancano dei pezzi da novanta come il grande Steve Overland (FM), l’egregio Gui Oliver (Landfall, Auras e Mayank), il fantastico Robbie LaBlanc (Find Me) e il bravissimo Ronnie Romero (Michael Schenker, Rainbow). Quindi questa raccolta di cover si concentra sulla precedente carriera di Bolton, proponendo le migliori canzoni estrapolate soprattutto dal secondo disco in studio dell’85. Si parte proprio dal duo, “Everybody’s Crazy” e “Fools Game”; il primo interpretato in modo preciso da Girish Pradhan e dove si comincia a sentire un suono più robusto rispetto all’originale, mentre il secondo è il pane quotidiano di Steve Overland dei britannici FM, che a mio modesto avviso non ha nulla da invidiare al famosissimo Bolton. Del Vecchio saggiamente riproduce perfettamente il sound ottantiano di queste splendide canzoni aggiungendo un tocco europeo più attuale, che non guasta affatto e che ritroviamo in tutta la scaletta. Idem per il collega LaBlanc nella ritmata, “Gina”, leggero rock melodico ottantiano impreziosito da eccezionali cori e da un buon ritornello.
Il registro cambia invece notevolmente con la possente ugola di Romero in “Don’t Tell Me It’s Over”, caratterizzata da una trascinante tastiera, un orecchiabile refrain melodico e un pazzesco assolo chitarristico di Andrea Seveso. Merita attenzione il bravo Stefan Nykvist nella super ballata à la Survivor intitolata, “Call My Name”, sostenuta dalla solita e ammaliante keyboard di Saal Richmond e dalla sei corde elettrica del virtuoso Seveso, ancora protagonista di fenomenali e prolungati assoli chitarristici. Carina è pure “Can’t Turn It Off”, pezzo hard rock eseguito passionalmente dall’ottimo Gui Oliver e sempre guidato dalle fondamentali e armoniche tastiere. Purtroppo, le canzoni più importanti del musicista statunitense, “How Can We Be Lovers” e “Steel Bars” sono brani AOR molto lontani dalla versione natìa. Dave Mikulskis canta bene, ma il paragone con la voce di Bolton è impietosa. Lo stesso vale anche per la seconda cantata dall’indiano Sochan Kikan (About Us), che manca di personalità e coinvolgimento emotivo.
Peccato, ma le cover a volte sono degli autogoal micidiali e spettacolari. Per fortuna Santiago Ramonda risolleva gli animi nella cadenzata e atmosferica “Save Our Love”, leggermente restaurata nel suono ma molto vicina all’originale soprattutto per la voce dell’eccellente argentino. Lo stesso discorso vale per il cambiamento sonoro di “Wait On Love”, una delle più affascinanti composizioni di Michael in cui le ragazze serbe dei The Big Deal, Ana e Nevena, anziché arrampicarsi sugli specchi, danno una loro interpretazione vocale che lascia naturalmente il tempo che trova. Qui l’assolo di sassofono che si sente nella prima versione è sostituito dalla chitarra elettrica del virtuoso Andrea, capace di aggiungere intelligentemente un tocco di tradizionale hard rock. L’ultima, “Desperate Heart”, viene eseguita dalla band di Frontiers in modo più forte a livello strumentale ma le corde vocali di James Robledo sono troppo basse e deludenti per imitare Bolton.
Non tutte le canzoni sono all’altezza a livello vocale mentre a livello strumentale i musicisti coinvolti meritano un applauso per l’ottimo lavoro profuso. Occasione sprecata per conoscere la parte artistica migliore di Michael Bolton? Io sono sempre dell’avviso di procurarsi, nei limiti del possibile, i primi album rock del cantante americano per assaporare il clima ottantiano di tracce diventate nel tempo delle pietre miliari del rock melodico a stelle e strisce.