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È così lampante che è ovvio che ci arrivino in pochi. È chiaro come il sole.
I bambini non conoscono il mondo ma hanno un’intelligenza fenomenale. Se lo conoscessero, sarebbe loro evidente e non avrebbero freni di circostanza ad ammettere che nascere – qui e oggi – non ha nulla di giusto. Non è giusto dover farsi abitare dalla collera, non è giusto il cantone angusto della disperazione, non è giusta la sadica crudeltà del sapiens, non è giusto l’egoismo, non è giusto perpetuare l’errore e nell’errore. Non è giusto perpetrare l’errore né l’orrore. Non è giusto questo articolo.
Qui e oggi, a conti fatti, è tutto sbagliato.
L’inconsolabile pianto della bimba in copertina non è forse la trasposizione infantile della rabbia adulta degli Humus? Arrabbiati per forza. Bisogna esser degli smidollati per tollerare tutto e, lungi dal ricoprire un’importanza pari o simile a quella del fondamentale complesso organico di cui portano il nome, i quattro Trentini sono artefici di un rock che più rock non si può. Arrabbiati a puntino, sfoggiano una versione spoglia, tirata e quadrata degli Afterhours, lì dove talora s’infrangono gli sfoghi dei Pearl Jam, più almeno un paio di passaggi psicodesertici. Un andamento percussivo secco e nervoso come potrebbero averlo – che so? – i Queens Of The Stone Age aiuta a conferire un aplomb severo, privo di salamelecchi di sorta.
Non chiediamo loro di dar conto dei testi perché non sono particolarmente immediati né si può dar loro un significato necessariamente universale. C’è, comunque, un filo conduttore sia lungo l’album sia lungo la discografia (gli Humus son difatti usi riciclare il nome dell’ultimo brano di ciascun disco come titolo di quello successivo) e sappiamo che solo con la lingua natia si possono accarezzare le giuste pieghe espressive che ci vibrano sottopelle.
Gli Humus han fatto centro. Posseggono qualcosa che non li lascia annegare nelle brutture della media e che li rende genuini e semplici. Proprio come i bambini.