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Volere è potere? È un impasto di melodia, tecnica ed eleganza l’obiettivo dichiarato dal quartetto torinese, formatosi sul finire del secolo e inseribile a pieno titolo nel filone italico del cosiddetto power melodico/progressivo. Una corrente nutrita a getto discontinuo dall’etichetta di Maurizio Chiarello – che ne pubblica oggi il quarto album dopo l’EP A Social Desease dello scorso anno – storicamente votata alla promozione di sonorità meno incostanti.
A due decenni dall’auto-prodotto Prophecy Of A Dream solo gli ex Ecliptica Vecchio e Bernazzi sono ancora della partita: attorno a loro han ruotato nomi più o meno noti della scena metal tricolore (citiamo l’attuale Vision Divine Ivan Giannini, l’ex Projecto Rob Bruccoleri e l’ex Skylark Carlos Cantatore) e di pari passo han vorticato i sottogeneri, un’indefinitezza che il nuovo Alien Nation ribadisce, tornando a lambire territori progheggianti dopo lo spiazzante hard blues vitaminizzato di A Moment, A Place And A Reason (2016).
Chi vi scrive, ingannato da una scelta grafica accostabile ad un registro Hi-Tech AOR, s’attendeva un salto ancor più lungo, in direzione di un assetto melodicamente sofisticato di certo non lontano dai pensieri del gruppo. Seppur presenti – nell’intensità di “The Mask” e “Feeding My Soul”, per esempio – i momenti di intimismo cromato sono incanalati in strutture hard rock levigate ma robuste, che trovano ancora in Extreme, Mr. Big e Van Halen un valido riferimento tecnico. A tale, nobile retaggio, s’aggiunga un contorno di metal-prog nella sua accezione meno rocambolesca e più solidamente geometrica, ben riconoscibile nei frangenti graffianti di “Empty Desires” e “Alien Nation”, fulgido riflesso del rispetto di Salvo e Luca per i Fates Warning di Parallels ed Inside Out.
Discutibili alcune scelte in consolle riguardanti il suono della sei corde, nei tratti solistici quasi incapsulata e spesso avulsa dal contesto ritmico (che piacevoli, però, i quattro minuti strumentali di “Odd Rails”!) mentre va elogiata la volontà di non svilire con le consuete pratiche d’appiattimento digitale le dinamiche dei piatti e dei tamburi di Rostagno (merito di Stancioiu?).
E Dell’Orto? La voce di Drakkar, Athlantis e Verde Lauro non s’adatta sempre con garbo ai temi melodici dell’album, risultando troppo “tirata” nelle porzioni emotivamente cariche: un’eccedenza compensata dai passaggi più pacati e dalle sovrapposizioni corali, nei quali emerge un timbro caldo ed avvolgente che meriterebbe nuovi scenari.
Un disco di sostanza, riuscito e curato, capace d’appassionare dopo almeno una decina d’ascolti. Non resta che attendere il prossimo salto, con la speranza che l’approdo sia altrettanto gradevole.