MARTIN TURNER (Ex-Wishbone Ash)


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MARTIN TURNER – Inossidabile!

di Renato de Filippis

L’occasione di questa intervista è una fortunata coincidenza: mi ritrovo per lavoro nei pressi di Mannheim, Germania, proprio nei giorni in cui Martin Turner, Ex-Wishbone Ash, tiene uno degli ultimi concerti del suo tour tedesco 2023. Posso non sfruttare l’occasione di conoscere colui che ha scritto quasi per intero Argus, il disco che mi ha cambiato la vita e che rappresenta il picco della creatività e del successo dei Wishbone Ash?

Incontro Martin a metà pomeriggio, nello spiazzo del locale che ospiterà il suo concerto. Con me aspetta un singolo fan, ma ben fornito di vinili – almeno sette o otto – che si fa autografare per un paio di minuti. Il bassista ha uno sguardo vivo sotto gli occhiali e tanta voglia di parlare, per mia fortuna: per cui quella che avevo concepito come una intervista ‘strutturata’ diventa un interessantissimo flusso di coscienza, che provo a incanalare solo il minimo indispensabile, lasciando Martin vivo di conquistarmi con i suoi ricordi. Davanti a due birre parliamo per oltre 50 minuti, e quando la sua crew mi dice di andare è solo perché ormai è ora del soundcheck! Ecco il resoconto della nostra chiacchierata, conclusa con un abbraccio che porterò per sempre nel cuore.

Non possiamo che partire da Argus: oltre cinquanta anni dopo la sua pubblicazione, vai ancora fiero di quel disco?

Argus vinse un premio all’epoca in Gran Bretagna, quello di ‘Album dell’anno’ per il 1973, e devo dire che a competere c’erano anche dischi di Elton John, David Bowie, EL&P, Pink Floyd… certo che ne vado fiero!

Qual è il percorso che vi ha portato a quel capolavoro? Vuoi raccontarmi qualcosa dei primordi?

La storia di come i Wishbone Ash sono diventati una band è insolita. In origine vivevo nel West Country, che è la parte terminale della Gran Bretagna sul lato atlantico, quella che guarda verso l’America. Un posto decisamente piovoso, ma l’estate è amabile! In ogni caso avevo un gruppo, ci chiamavamo The Empty Vessels: eravamo semplicemente mio fratello Glenn, Steve Upton [che poi diverrà il batterista dei Wishbone Ash, ndr] ed io. Normalmente suonavamo nei fine settimana, qualche volta anche il giovedì, e… come posso dire, ci sentivamo un pesce grande in un mare piccolo! In quella piccola parte di mondo tutti ci amavano e noi eravamo contenti, ma volevamo qualcosa di più… beh, la notte di Capodanno del 1968 eravamo stati svegli tutta la notte, suonando da qualche parte nel Cornwall, e quindi ce ne stavamo tornando a casa. Io dissi a Steve “Al diavolo, sono così stanco, voglio andare a dormire”, ma Steve mi rispose “No no no, non possiamo! Dobbiamo andare al lavoro!”. (ridiamo entrambi) Per Steve poteva essere facile, perché lavorava in un ufficio, ma io lavoravo all’aperto, per un commerciante di legname. Quel giorno dovevo fare delle consegne: il vecchio proprietario mi disse di stare attento, io lavorai con attenzione fino alle quattro del pomeriggio… ma appena terminai presi l’auto e, per la stanchezza, arrivato in città feci un brutto incidente, schiantandomi contro una macchina parcheggiata! Si creò un traffico pazzesco, si radunò una folla enorme… io sentivo solo il rumore del motore acceso e chiedevo di spegnerlo, perché nei pressi c’era un grande serbatoio di benzina.

Diamine… Per fortuna sei qui a poterlo raccontare!

Decisamente! In ogni caso dovetti andare all’ospedale per farmi mettere dei punti di sutura in faccia… ma la cosa significativa è che mi dissero che, se la macchina contro cui mi ero schiantato non fosse stata lì, avrei potuto uccidere una donna con un bambino che passavano lì vicino! Questa notizia mi ha davvero sconvolto, perché sarebbe stata una grande tragedia, così mi sono reso conto che non potevo fare Superman, lavorando tutto il giorno e suonando tutta la notte. Dovevo fare una scelta: e mi risolsi a diventare un musicista professionista. Questo significava andare a Londra e provarci, magari per un anno, magari per due, per verificare se potevo mettere su una carriera…

Mi sembra che tu ci sia riuscito!

Beh, grazie! Tieni conto che tutto questo succedeva il 1° Gennaio 1969. Quella mattina, come ti dicevo, avevo fatto delle consegne ed ero stanchissimo. Ero da qualche parte in campagna, fuori dalla città, e mi fermai vicino a un ruscello. Camminai un po’ e lavai la mia faccia nel fiume. Alzai lo sguardo, e c’era il sole che brillava in mezzo alla nebbia, e sopra la mia testa volò un airone [in inglese ‘heron’, ndr], hai presente questo tipo di uccello?

Sì, in italiano la parola è praticamente la stessa.

Perfetto. A me tutto questo sembrò come una visione, mi fece rizzare i peli sulla nuca… in qualche modo fu inquietante! E quel giorno ha veramente cambiato la mia vita. Così decisi di andare a Londra, ero un ragazzo giovane, avevo attorno ai 20 anni, e sai, se avessi ucciso una donna con il suo bambino, sarebbe stato un modo terribile di iniziare la mia vita… sono stato fortunato!

La cosa strana è che, quando sul luogo dell’incidente arrivò un poliziotto, e vide che la mia bocca era spaccata e che non avrei potuto modificare nulla della scena, mi consentì di andare in ambulanza all’ospedale. Quando finirono di visitarmi (e mi dissero che le mie costole si erano piegate, per quanto non provassi dolore: e lo sono tuttora!) mi lasciarono andare, dicendomi che la polizia mi stava aspettando fuori per parlarmi. Così uscii e mi guardai attorno, ma non vidi poliziotti, così me ne andai. Sentii Steve al telefono, e lui mi disse “Qualunque cosa fai, non dire alla polizia che eri stato sveglio tutta la notte, perché la compagnia ti licenzierebbe”… lì per lì pensai “Ma guarda, non se fotte niente di me, è solo preoccupato per la compagnia”, e sovrappensiero me ne andai a casa.

Dormii molte ore, il giorno dopo mi sveglio, apro la porta e mi trovo davanti il poliziotto, arrabbiatissimo! Mi dice “Non sai che guaio mi hai procurato, sono stato a un passo dal farmi espellere dalla polizia! Stavo seguendo la tua ambulanza e anche io ho avuto un incidente contro l’auto di una donna, e il mio sovrintendente stava per licenziarmi!”. Così gli ho detto: “Hai visto, siamo sulla stessa barca! Vieni dentro e beviamo una tazza di tè insieme”. E così andò, fu molto gentile.

Incredibile! Dopo tutto questo sei effettivamente andato a Londra?

Mi servirono alcuni mesi per riprendermi e per mettere da parte un po’ di soldi, ma alla fine sì, andammo a Londra, l’unica grande città in Inghilterra nella quale, forse, puoi ottenere qualche risultato in campo musicale. Ed è quello che facemmo! Siamo stati fortunati, trovammo un tipo che era appena arrivato dal Medio Oriente, Miles Copeland, che divenne il nostro manager. Uno dei primi show che suonammo fu una singola data a supporto per i Deep Purple. E quando suonammo, quella sera, vidi Ritchie Blackmore che stava a lato del palco e ci guardò suonare a lungo, venti minuti, forse una mezz’ora… Non pronunciò una parola, ma poi andò dal suo vecchio produttore, Derek Lawrence, e gli disse “Derek, questa band è davvero buona, dovresti andare a vederla!”. Così Derek, che aveva prodotto i Deep Purple negli anni ’60, ci chiamò e ci disse che voleva venire a un nostro spettacolo… solo che noi in quel momento non avevamo niente in programma! Allora gli dicemmo che avevamo delle registrazioni e lo invitammo a venire a casa nostra. Lui le ascoltò e ci disse “Ragazzi, la vostra musica mi piace davvero molto. C’è un mio buon amico che è appena diventato dirigente presso la MCA Universal Records a Los Angeles. Se mi pagate il biglietto per volare fin lì, porto le vostre registrazioni e vi garantisco che avrete un contratto, ma negli Stati Uniti”.

E voi cosa avete fatto? Avete davvero pagato?

Noi gli dicemmo “D’accordo, quanto costa il volo?”. E lui rispose “300 sterline”. E noi urlammo “Ma noi non abbiamo 300 sterline!”. Così venimmo a patti e gliene pagammo 150! (ridiamo entrambi) Lui fu d’accordo e finì per essere il produttore dei primi tre album, Wishbone Ash, Pilgrimage e Argus, che dunque sono tutti realizzati con la stessa squadra, noi 4 membri della band e lui (a parte un pianista che ci ha suonato qualcosa), e con lo stesso ingegnere del suono. Per cui, con Argus si può dire che avessimo quella che si chiama una macchina ben oliata.

Torniamo allora ad Argus e ai suoi brani. Da quale vuoi iniziare?

Beh, direi da “Warrior”. Da tantissimo tempo, sin da quando ero molto giovane, riflettevo sui despoti e sui dittatori, quelli che tentano sempre di indirizzare le energie dei giovani verso la guerra, di convincerli che la guerra è una cosa importante, e lo fanno da sempre… ieri era l’Ucraina, oggi è il Medio Oriente, ogni dieci minuti scoppia una guerra… “Warrior” riguarda questo. Ma quando ho scritto il testo ho pensato che qualcuno potesse fraintenderne il senso, come se io sostenessi la guerra, quindi c’è la seconda canzone missata insieme, che rappresenta un po’ il “dopo”, il momento in cui dovremmo “Throw Down The Sword” [titolo della canzone successiva del disco, che significa letteralmente “abbassare la spada”, nda].

Il mio brano preferito in assoluto della vostra discografia, e forse di tutta la musica rock!

Davvero? Beh, quel brano ha qualcosa di sacrale, rimanda a quando mia madre mi inserì nel coro della chiesa perché comprese che sapevo cantare! E così, da quando avevo 6 o 7 anni fino a 14 o 15 ho sempre cantato in quel coro… credo che da quella esperienza venga anche il testo di “The King Will Come”. Ha rimandi cristiani, se ne parla nella Bibbia, dove si dice che Gesù verrà e ci salverà dalla nostra follia. Non sono mai stato particolarmente religioso, e infatti quando ho passato tutti questi anni nella chiesa ho visto molte contraddizioni. Ora che sono diventato vecchio – sarà perché mi sto avvicinando al momento in cui dovrò lasciare questo mondo – sto cominciando a pensare “Beh, potrebbe esserci un Dio, potrebbe esserci un aldilà, ma chi lo sa, lo scopriremo!”. Sai, tutte queste tematiche, sono presenti in brani come “The King Will Come”, “Warrior”, “Throw Down The Sword”… anche se ci sono poche parti cantate, in quelle ci sono io che tento di avere a che fare anche con questi concetti religiosi.

Possiamo dire che è la tua dichiarazione contro la guerra?

Sì, è corretto. È molto potente e credo che “Warrior” e “Throw Down The Sword” vadano molto bene insieme. Quando le registrammo dissi ai tecnici “Sentite, alla fine di “Warrior” fate in modo che la musica vada avanti ancora un po’’, e provammo a creare una atmosfera come quella alla fine di una battaglia… ci sono morti che giacciono ovunque, cose che bruciano, tutto è finito e tutto è terribile. E allora provammo a rendere tutto ciò musicalmente nella transizione fra i due brani. E poi inizia “Throw Down The Sword”, puoi sentire gli eserciti che marciano sulle colline, con i tamburi e le cornamuse… è qualcosa che è quasi impresso nei tuoi geni, quando senti quei suoni possono essere passate centinaia di anni, ma il tuo corpo reagisce a quel suono. Per me “Throw Down The Sword” è come un inno, come quelli che ero solito ascoltare quando stavo in chiesa, e amo ancora quella musica. Mio padre mi introdusse alla musica classica, sai come fanno i padri, si siedono con i bambini e sentono la musica per ore… ci piaceva fare questa cosa particolarmente d’inverno, e sono cresciuto con un vero e proprio affetto per la musica classica russa… ad esempio per Tchaikovsky. Ti dico infatti che le armonie di chitarra dei Wishbone Ash le descriverei come “melodie pseudo-classiche”. È qualcosa di simile, se suoni una chitarra sola è orrenda, ma se le suoni insieme realizzi molto rapidamente che è il nostro sound, che è immediatamente identificabile, dato che abbiamo realizzato tutto questo molto spesso.

E per quanto riguarda “Leaf And Stream”?

Beh, lì il testo lo scrisse Steve, ma quando lo lessi gli dissi “Steve, è molto simile al testo di un brano che ho scritto per il secondo album, “Alone’’”

Sì, la conosco, è sul cofanetto Distillation!

Bravo! Beh, non usammo la parte con il testo su “Pilgrimage”, solo il finale di chitarra. In ogni caso gli dissi che mi sembrava un testo molto simile al mio. E lui rispose “È così, lo so, ma l’ho riscritto dalla base”, e quando confrontai il suo testo con quello che avevo scritto io in origine, mi resi conto che il mio faceva schifo e il suo era davvero buono! E così venne fuori quella bella canzone.

Ma so che avevate un problema con “Blowin’ Free”…

Sì! Non mi pare che provammo a registrarla per l’esordio, sebbene la eseguissimo dal vivo già all’epoca, ma certamente provai a inserirla nel secondo disco; nell’insieme però suonava malissimo… così Miles disse “Dai ragazzi, questo è un inno all’amore giovanile, non c’entra niente con il resto”. Ma quando componemmo Argus, anche lì il clima era abbastanza serio… prendi “Time Was”. All’epoca ero inquieto, ero in anticipo sugli altri rispetto a determinate cose, oppure ero limitato e non avevo tempo per fare quello che volevo, mi sentivo “fuori dal tempo” e fuori luogo! Sai, no, che se guardi un pianeta milioni di chilometri lontano, lo vedi come era migliaia di anni fa! Quando scoprii questa cosa in parte ero felice, perché non mi sentivo più così limitato, ma è comunque qualcosa di strano, no?

In ogni caso Andy Powell [storico chitarrista della band e attuale detentore del nome della medesima, ndr] aveva un problema con il testo di “Blowin’ Free”, e mi disse “Non puoi cantare ‘I thought I had a girl and all because I see her’ [verso iniziale del brano, ndr]”. Io gli chiesi “Che significa non posso cantarlo?”, e lui rispose “Perché grammaticalmente è un inglese pessimo!”. E allora io gli dissi ancora “Dai Andy, hai paura che qualcuno possa notare che noi siamo della classe operaia, o qualcosa del genere? Il bello del rock’n’roll è che posso cantare quello che cazzo voglio!” (ridiamo) Steve qualche volta mi diceva “Mart, il problema è che tu pensi che se scopi sul palco sia comunque arte!” E io “Beh, c’è chi ritiene arte cucinare, o tirare vernice su una tela, perché questo no?” (ridiamo ancora)

Insomma, eravamo nel mezzo della produzione di Argus, e io dissi “Ok ragazzi, è ora che rispolveriamo “Blowin’ Free”, è il suo momento, suonerà fantastica!” Così la registrammo mettendoci molta energia, e io dopo averla suonata entrai nella stanza di controllo, e sentii dai tecnici che avevano registrato un sound davvero buono. Ma poi apparve Lawrence, e mi chiese se avevo un minuto. Io gli dissi “Certo”, e lui: “Senti Mart, ho parlato con i ragazzi delle canzoni, sai, e tutti pensano che questa “Blowin’ Free” sia un po’ troppo pop e un po’ superficiale, sai, tutte le altre canzoni sono così serie… forse appartiene al prossimo album”. Io diventai psicotico: “Mi stai prendendo per il culo? “Blowin’ Free” va sul disco esattamente per questo motivo, cioè perché le altre canzoni sono troppo serie, è tutto troppo serio, devi bilanciare qualcosa! Quindi va sul maledetto disco, fine della storia!” E lui ebbe il buon senso di non insistere.

La ragazza di cui si parla nella canzone… l’hai mai rivista?

Solo da ragazzo. Era una splendida ragazza svedese, gambe lunghe, capelli biondi, denti perfetti, pelle delicata, e noi eravamo entrambi così giovani… suo padre era un professore universitario, lei venne per due anni di seguito in Inghilterra, giocava a tennis, cavalcava… era bellissima e io avevo per lei idee peccaminose! (ride) Eravamo giovani e innocenti. Un giorno la portai in un posto vicino a dove vivevo, chiamato Darkmoor, su per le colline. Andammo lì sopra, ci sedemmo e guardammo una tempesta che stava spostandosi a valle, c’erano tuoni e fulmini, e noi eravamo semplicemente felici di stare lì a guardare. Alla fine io dissi “Posso baciarti?” e lei disse “You Can Try” [altro verso della canzone, ndr].

E tu lo facesti?

Certo! (ride) Fu una bella relazione… non andò da nessuna parte, era una cosa veramente dolce e innocente, poi lei tornò in Svezia. Io poi negli anni diventai un tipo duro, ma attiravo le donne in quanto musicista, e ho sempre detto a tutte le donne con cui sono stato “Cara, non farmi scegliere fra te e la musica, perché sceglierò sempre la seconda!”

Parlami, se vuoi, di qualche altro brano. Ad esempio uno dei miei preferiti è “Lady Jay”, da “There’s the Rub”.

“Lady Jay” ha una storia semplice, si riferisce a una vecchia leggenda… non so quanto sia vera, ma insomma: un aristocratico si innamorò perdutamente di una giovane popolana. Lei restò incinta e i due volevano sposarsi, ma questo non fu permesso dalla famiglia di lui, che glielo proibì. Così alla fine lei fu lasciata da sola e si suicidò, penso portando con sé il bambino. In ogni caso non poteva essere seppellita in un cimitero cristiano, e così fu tumulata ai margini di una strada. Il nobile allora, che doveva essere qualcosa come un principe, credo, andò tutti i giorni alla sua tomba a portare fiori, e quando lui morì… i fiori continuarono ad apparire ogni giorno sulla tomba. Ora, questo accadeva qualcosa come 250 anni fa, ma noi volevamo vedere se era vero, così una volta, nel mezzo di una notte sinistra, di ritorno da un concerto, passammo nel luogo della leggenda e trovammo la tomba. Dunque restammo lì per qualche minuto… volevamo vedere se apparivano i fiori! Soffiava un vento forte, e dei fiori caddero davvero sulla tomba! Allora d’improvviso mio fratello disse “Ok, lo avete visto, ora dovremmo andarcene via!” Era tutto spaventoso, il posto era oscuro, così ce ne tornammo subito sul van e scappammo. Ma in seguito sentii che volevo davvero scrivere una storia su tutto questo!

Mi parleresti anche di “Errors Of My Way”, dal vostro debutto?

Certo! Andy Powell dice sempre “Questa è una delle mie canzoni”, dato che ideò il ritmo in 6/8, e lui è molto bravo a suonare in questo tempo. Ma una volta mi misi a guardare nei miei vecchi libri, e tirando giù vecchia roba trovai un quaderno delle mie prime canzoni… ed è molto interessante, perché c’era “Errors Of My Way”! L’avevo scritta nel ’67 o nel ’68 ed aveva una strofa in più, che dunque erano quattro e non tre. Ok, la strofa in più non era necessaria, così quando la registrammo la tagliammo. Che posso dirti, è una canzone sull’imparare la lezione: puoi fare errori, ma questi ti insegnano come agire bene la prossima volta.

E che mi dici invece di “Valediction”, da Pilgrimage?

Una dolce canzone, una delle poche che Andy abbia scritto durante tutti gli anni ’70… credo siano tre canzoni in dieci anni, e credo abbia ricevuto un po’ di aiuto da sua moglie, che era un’insegnante di scuola. Beh, è evidentemente un brano sull’andare via e lasciare la persona amata, “leaving is a sin, they say”…

[completando il verso, nda] …”loneliness is the price to pay”.

Esatto, sai anche questa! (ride) L’abbiamo anche suonata in qualche tour.

A proposito di tour: oggi la scaletta è principalmente quella di Live Dates del 1973. Ritieni quel tour il momento apice della vostra storia come band?

Forse no, anche se molta gente direbbe così: per me il nostro miglior concerto è quello che tenemmo a Londra assieme a Emerson, Lake & Palmer, poco dopo aver vinto il concorso di cui abbiamo parlato. Eravamo in grandissimo ritardo perché ci bloccammo nel traffico: EL&P dovevano suonare dopo di noi, ma dato che nessuno stava suonando, i promoter dissero che bisognava andare avanti e fecero suonare loro! Gli EL&P non furono particolarmente contenti, ma noi siamo stati gli headliner della serata, e onestamente non mi interessa che si siano arrabbiati!

Quello fu un gran momento, ma forse un altro grande concerto di cui posso ricordare lo suonammo qualche anno dopo, in un festival nel sud della Francia. La location era un anfiteatro romano, un festival di tre giorni! Io avevo subìto da pochi giorni una intossicazione alimentare e fisicamente non stavo bene, mi sentivo esausto. Così andai a dormire nel camerino, credo che mi sistemai delle coperte sopra a degli amplificatori… mi svegliarono credo attorno all’1:30 del mattino, dicendomi “Devi andare sul palco!” Io mi sentivo malissimo, con la bocca completamente impastata, ma in ogni caso andai sul palco veramente tardi, forse alle 2:00 o ancora oltre. Il pubblico era lì da tre giorni e forse era un po’ stanco, ma il suono nell’anfiteatro era magnifico, e proprio alla fine, mentre suonavamo “Phoenix”, il sole spuntò sull’anfiteatro e la sua luce arrivò sul palco. Fu una cosa magica, e la gente parlò del festival per anni! Ho reso l’idea? Fu un evento davvero speciale, il pubblico si ridestò completamente, e quando finimmo si alzarono tutti e applaudirono per minuti e minuti! Non solo: tornando al minibus che doveva portarci all’hotel, appare questa meravigliosa ragazza, una modella di Parigi, che mi disse di essere per metà africana e per metà bianca… davvero una bellissima ragazza! Così ci mettemmo a chiacchierare, e io le dissi “Dai, vieni con noi all’hotel, facciamo colazione insieme…” e lei lo fece, il resto te lo lascio immaginare! (ride)

Ho un’ultima domanda, forse un po’ provocatoria: credi che ci sia qualcosa che è non è andato per il verso giusto nella storia della band, o nella tua personale come musicista? Credi di aver raccolto meno di quanto meritavi?

Beh, sai dei dissidi con Andy Powell, il fatto che abbia registrato il nome per sé e di come questo fece arrabbiare un po’ tutti, soprattutto quando fece le sue dichiarazioni personali alla stampa… Ma se penso a me, e vedo a quanto la gente è affezionata alla mia musica, e in particolare ad Argus… non so, ci sono persone che hanno usato brani di quel disco per i funerali dei loro genitori [io anche ho sempre pensato di farlo, ma per il mio! nda], il che significa che hanno un significato davvero profondo per loro… non so, questo talora mi ha fatto pensare che, quando scrivo un brano, mi ritrovo quasi in uno stato di trance, mi sembra che l’ispirazione venga dall’intero universo e che io sia soltanto un suo canale. Il termine giusto è forse che “passa attraverso di me” [“Coming Through” nell’originale] per andare nel mondo… per fartela breve: non rivendico di essere un grande, e permetto semplicemente a questo flusso di “essere utilizzato”, ma se mi stai chiedendo se sono soddisfatto della mia carriera come musicista dopo tutti questi anni, se sono felice… sì, lo sono, ne sono sicuro.

Questa è un’ottima cosa!

Certo! Mi piace suonare, mi piace ascoltare la musica, e anche se nel corso degli anni ho provato a sfuggire a questa cosa, quando mi sono sentito stanco e ho provato a fare altro, sono sempre tornato alla musica. Il destino cospira per portarmi indietro, dove ci si aspetta che io sia!

Chiudo l’intervista chiedendoti se avremo mai speranza di vederti in Italia…

Lo spero, ma non so dirtelo… ho un amico, inglese, che ha sposato Jacqueline Du Pré, una famosa violoncellista, che per me è stata la migliore del XX secolo con questo strumento, per quanto sia morta davvero giovane. In ogni caso loro due avevano comprato una vecchia casa da restaurare, che è da qualche parte in provincia di Pisa; ci sono andato diverse volte e sono stato da loro, è così facile innamorarsi del tuo paese, per via del cibo, del vino, del paesaggio, degli edifici… l’UE non è altro che una nuova versione dell’Impero Romano, che è una cosa che avete fatto voi, è la vostra eredità!

Aggiungo solo due parole sul concerto di Mannheim. La scaletta ha compreso tutti i brani dell’originale Live Dates, con l’aggiunta di alcuni altri classici:

Set 1

The King Will Come

Warrior

Throw Down the Sword

Rock ‘n Roll Widow

Ballad of the Beacon

Baby What You Want Me to Do

Lady Jay

Phoenix

Set 2

Lady Whiskey

The Pilgrim

F.U.B.B.

You See Red

Blind Eye

Living Proof

Blowin’ Free

Bis

Doctor

Jail Bait

Da quel che si può vedere, insomma, una vera festa per il fan storico! Martin regge bene le due ore abbondanti di show, e nella parte strumentale è ancora assolutamente in controllo (basta vedere quanto si diverte su “F.U.B.B.”, con un giro di basso abbastanza impegnativo). Incredibilmente mantiene anche, a 76 anni, una buona vocalità: è solo sui passaggi più difficili (ad esempio l’urlo di “Phoenix”) che la sua band lo aiuta sovrapponendosi a lui, ma per il resto canta praticamente tutte le canzoni (solo “Rock’n’Roll Widow” e “You See Red” sono affidate al capace chitarrista Danny Wilson). Inoltre, è evidente che si diverte ancora moltissimo: su “You See Red” scherza su Laurie Wisefield, autore del brano, e sul modo in cui nella band storpiavano il suo nome; prima di eseguire ‘Blind Eye’ strizza un occhio e chiede al pubblico di indovinare quale sarà il pezzo che sta per suonare; e continua a raccontare aneddoti, storie, a fare battute.

Il pubblico tedesco è come sempre partecipe, e una cosa in particolare mi ha colpito: quando sentii gli ‘altri’ Wishbone Ash, a Karsluhe nel 2014, notai che ero il più giovane dei presenti (e avevo nove anni meno di oggi…). A Mannheim ho invece notato che, nonostante il grosso del pubblico (e non potrebbe essere altrimenti) supera anche i 60, c’era qualche giovane che, con mio grande piacere, porta avanti la tradizione. Ultima piccola notazione: esecuzione insuperabile di “Throw Down The Sword”, eseguita con due chitarre soliste (a differenza di quanto fanno i Wishbone Ash di oggi, e di quanto avviene pure su Live Dates), che ha emozionato alcuni presenti, me compreso, fino quasi alla commozione.

Onore all’inossidabile Martin Turner, che ha oltre mezzo secolo di carriera e, con le date che ha già fissato per il 2024, non sembra avere alcuna intenzione di fermarsi!

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