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Banchettano sulle umane sventure, i Vox Inferi, e hanno di che saziarsi. Heic Noenum Pax (formula arcaica che potremmo tradurre con “Qui non v’è pace”) è il rantolo di un demone che torna all’inferno dopo un’indigestione d’atrabile, un umore che solo i mortali producono in gran copia. Il quintetto romano ne è talmente saturo da vomitare fiotti viscosi come bitume, una miscela di black e death metal primordiale che impregna i solchi fino a straripare, trascinando l’ascoltatore in un abisso di melma nera da cui è impossibile riemergere vivi.
Concepito come album concettuale, Heic Noenum Pax è una lenta discesa nelle tenebre dei gironi maledetti, per i quali vaga, guardinga, l’anima di un suicida: comprenderà che il vero inferno è tra i viventi, che gli orrori incontrati lungo le spire plutonie sono un riflesso delle devastazioni terrene e che il dolore è solo un ricordo delle sofferenze patite in vita.
Altrettanto cupa, seppur meno prevedibile, la controparte musicale: i riferimenti ai fautori dello sfacelo di fine ‘80 sono inevitabili, ma i Vox Inferi scarnificano fino all’osso il metal già spoglio e brutale di Hellhammer/Celtic Frost, dei primi Mayhem e della scena black/death svedese per ottenere un suono tanto crudo quanto glaciale. Mosca e Musmeci flagellano di rado, preferendo scavare le carni con riff corrosivi spesso minimali; stesso approccio per Ambrosini e Santoro, che si occupa anche del missaggio: i suoni della batteria sono smorzati, le sfuriate a velocità amusicali a ragion veduta limitate – poiché fuori luogo in un contesto reazionario –, mentre il basso accompagna lugubre, quasi dimesso.
“Amebas” e la sua versione demo “Funeral Mask Phenotype” sono concessioni sincere al death metal che fu, con rimandi ai Morbid Angel delle origini; sul versante opposto gli impaludamenti al limite del doom – parzialmente tersi dalla nera fiamma – diluiti nell’incedere marziale di “Snuffdolls” e “Merge Of Skins”. Merita un plauso, infine, l’espressività multisensoriale di Maurizio Buccella, autore di tutti i testi e delle grafiche in stile fumettistico che tappezzano il digipak: la convivenza tra italiano ed inglese (con un tocco assai gradito di “latinorum”), inaugurata quasi per caso lungo la stesura dell’opera, non solo convince appieno ma rende ancor più ferale il messaggio, come accade nella lunga “R.E.M.S.” (acronimo di Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza tramutato in Relegati Entro Mura Sorde), nella terrificante “Voladores” e nel black atmosferico – magistrale – di “Infesto”, brani scuri come pece che s’attaccano all’anima e l’invischiano, fissando attimi di catartica afflizione.
Prendiamone atto, assieme: stiamo infestando «questo spazio escisso dal tempo, manifesto del buio, tra le macerie d’inverno».
Buone Feste.