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Negli ultimi anni, l’India sta uscendo alla ribalta per quanto riguarda la musica metal. Basti pensare ai Falcun scoperti dalla casa discografica greca Eat Metal Records o ai debutti in casa Frontiers con i Girish & The Chronicles, e agli About Us provenienti dallo Stato indiano del Nagaland, come i debuttanti Fifth Note lanciati dall’etichetta italiana ancora una volta in cerca di talenti a livello internazionale. Here We Are nasce dal desiderio di provare a realizzare della musica propria in quanto questi ragazzi asiatici di fede cristiana, per anni hanno suonato cover di famosi gruppi come gli Stryper, gli AC/DC e i Circus Maximus. Con l’avvento e l’evoluzione di Internet e dei social media, la musica è diventata un fenomeno mondiale senza confini, senza barriere razziali, culturali e religiose. In particolare, la vitalità, il potere contagioso e l’inclusività del metal sono straordinari, e stanno contagiando i giovani di lontane regioni orientali e di posti inaspettati ad avvicinarsi alla nostra musica preferita con buoni risultati. Di particolare interesse è il Nagaland nell’India nordorientale, luogo da cui provengono questi nuovi musicisti e abitato dal popolo Naga, culturalmente, etnicamente e musicalmente diverso dalle maggiori regioni dell’India, motivo per cui il metallo di questo luogo è unico. Un altro dato da considerare è che il novanta per cento di questa regione è stranamente di fede cristiana e questo incide pure sui gusti musicali. Tornando all’album dei Fifth Note, questo include un set di brani hard rock di buona fattura con un tocco prog metal che ancora è figlio di sonorità sentite da band famose che hanno lasciato una grossa impronta nella storia del progressive. Penso ai Queensrÿche, ai Seventh Wonder e agli stessi Circus Maximus citati in precedenza ma anche agli irraggiungibili Symphonic X. In più, questi giovani artisti, da ferventi credenti promuovono la loro musica lanciando il messaggio sul pericolo dell’uso di droghe, di alcol e di che ne ha più ne metta. Ognuno è libero di esprimersi e di credere in quello che sente e vuole perché’ ciò che conta in fondo è la musica. Solo questa unisce. Tutto il resto purtroppo divide gli esseri umani.
“Il fatto che siamo cristiani e la nostra etica cristiana, ci motivano a fare meglio. Non so se riusciremo mai a farlo, ma almeno riusciremo a tenere lontano dalla scena rock: l’alcol, le droghe e il sesso”, afferma la band composta da: Samuel Thapa alla voce, Khriekethozo Sekhose alla chitarra, Sheduto Kezo alla tastiera; Jubito Swu al basso e Rüüvolie Kire alla batteria.
Insomma, la formazione asiatica sta cercando di distruggere gli stereotipi selvaggi sul sesso, sulla droga e sull’alcool che attanagliano il rock’n’roll da più di quarant’anni dimostrando al contrario che il metal può essere anche puro divertimento e fonte di energia per affrontare i problemi quotidiani della vita.
“Vogliamo essere una band conosciuta non solo nel nostro Stato, ma in tutto il mondo. Siamo molto influenzati dagli stili occidentali, ma cerchiamo anche di creare il nostro modo di suonare. Here We Are esprime chiaramente la nostra motivazione. Vogliamo fare buona musica che porti pace e guarigione all’anima. E vogliamo avere un impatto sul mondo con la nostra musica”, afferma la band.
L’inizio del platter con la song, “Rider”, è un tuffo nell’hard rock statunitense che negli anni ’90 vedeva gli Skid Row sul podio. Oltre ai riff spigolosi e taglienti della chitarra elettrica, il merito di questo sound va condiviso con l’aggressività vocale del singer indiano che trafigge i timpani con i suoi pungenti acuti. Da non sottovalutare neppure il lavoro del tastierista Kezo che segue le orme dei leggendari tastieristi che si sono susseguiti nei Dream Theater, addolcendo e trascinando un po’ il pezzo verso sonorità prog. Diciamo che la cosa riesce meglio nella ballata e ottantiana “Always Love You”. Vi ricordate le stupende canzoni dei Firehouse? Non siamo esattamente a quei livelli perché gli strumenti in alcuni momenti sono abbastanza duri ma nel ritornello ci siamo quasi. La successiva, “Dreamer”, dimostra ancora come questi ragazzi amino gli anni ’80 perché qui si buttano a capofitto sul tipico suono californiano di quell’indimenticabile periodo governato dai Mötley Crue, dai Poison e compagnia bella. Insomma, avete capito. Nonostante la scarsezza di originalità si apprezzano però gli inserimenti di tocchi prog, blues e jazz che sorprendono positivamente in un contesto molto moderno e alquanto ritmato. Certo, i puristi di questi generi potrebbero storcere il naso ma la musica proposta è tecnicamente valida e oserei dire anche coinvolgente. Il pianoforte e i riff elettrici della sei corde introducono poi la prog, “Fantasy”, facendo da apripista all’ugola pulita e pacata del bravo vocalist indiano che sciorina, con grande personalità, delle estensioni vocali degne di nota. A livello strumentale sono indiscutibili ma come stili profusi sono preferibili quando propongono il tipico suono del metal melodico, come nella semi ballata, “I Won’t Give Up”, o nella title track, “Here We Are”. Questo è un singolo molto cadenzato e drammatico, dalla grande melodia ingarbugliata tra stili metal, prog e AOR, che toccano l’anima e che sicuramente rendono allegri e vivaci per qualche minuto. L’influenza progressive continua nella sufficiente e orientaleggiante, “Misfortune”, che sembra esplodere da un momento all’altro in qualcosa di coinvolgente ma rimane bloccata nelle urla di Thapa senza arrivare mai a quella deflagrazione che possa farla decollare almeno nel ritornello. Sono interessanti alcuni cambi di tempo e la magia tastieristica del solito Kezo, che fa immergere l’ascoltatore in ritmi infernali già sentiti nelle band di riferimento del genere. Mi vengono in mente i Vanden Plas degli esordi tanto per nominarne una a caso. “Falling Apart”, riprende lo stesso filone ma con più durezza e forza. Qui le corde vocali del frontman sono più dure e brutali in un contesto ossessivo di note telluriche e battenti che sembrano un martello pneumatico frenato soltanto dagli accordi soavi e contrastanti della keyboard. Bello il prolungato assolo di chitarra e quello tastieristico che fanno prendere mille punti ai Fifth Note. Stranamente la parte finale si fa più interessante dell’inizio classico proposto dal quintetto. Ne è una testimonianza la martellante e ancora prog metal, “Confused Trauma”, dai tocchi folk e dalle armonie spezzate altalenate da cambi di tempo pazzeschi. La penultima, “Drifted”, è la ballata commovente e sensibile che vuoi o non vuoi deve spezzare il ritmo, abbassare la velocità esecutiva e far vedere chiaramente il lato sentimentale di cinque giovani artisti innamorati della vita. Qui comandano il pianoforte e il canto orchestrale, affascinanti e coinvolgenti per far sognare e riflettere sulle nostre esistenze. Siamo o no alla “deriva”? A ognuno la propria risposta. Dopo questo momento atmosferico di calma e meditazione l’opera si conclude con l’enigmatica e incazzata, “End Time’s”, che nonostante sia massiccia e abbastanza heavy presenta un ritornello melodicissimo e sobrio da farla sembrare un pezzo di melodic metal di stampo europeo. Forse troppa roba e troppa carne al fuoco come inizio. Credo che a parte l’ancora poca originalità, i Fifth Note debbano puntare prevalentemente su un metal melodico con tocchi progressive data l’enorme abilità tecnica dei suoi componenti. Il tempo e il futuro sono al momento dalla loro parte.