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Ci sono molte rifondazioni che non ho mai visto di buon occhio, a volte per un sano preconcetto cautelativo, a volte per manifesta malafede dell’oggetto del mio sdegno.
Quando nel 2003 tornò a galla il nome della gran testata d’angolo del noise di strada – che firmò poi quel Size Matters (2004) comprato solo anni dopo e che tutt’ora langue sigillato sul mio scaffale a seguire di Aftertaste (1997) – giocai la carta più potente mai servita ai consumatori dai mazzieri del mercato: me ne disinteressai.
La resuscitazione fu infatti volta, nelle parole successive dello stesso Hamilton, a finanziare i proprî fervori artistici del tempo (il pane quotidiano gli era già garantito dal successo major degli anni originarî del gruppo). Stainer e Bogdan avevano del resto rifiutato e non potei fare a meno di storcere il naso per l’impiego della sigla Helmet.
Ma il tempo blandisce e sottomette, incrina anche le menti più forti con l’inerzia della norma, spinge alla tolleranza – una parola orribile –; il tempo traveste il tanfo pestilenziale da fresco ossigeno corroborante. Sicché ci riprovai, con Dead To The World (2016). Stavolta però lo ascoltai: mi fece vomitare. Assieme alle armi deposi dunque la speranza, ma ne fui felice. Almeno era fatta.
Dalla rivendita di quel dischetto all’acquisto di Seeing Eye Dog (2010) passarono degli anni. S’intrufolò nello stereo in cambio di cinque euri: di vomito neanche l’ombra. Seeing Eye Dog è un buon lavoro, sì.
2023. È l’ora di Left. La composizione condivisa interamente con Kyle Stevenson e i sette anni di jato dall’album precedente equivalgono a scarsa o nulla fame di denaro. La formazione semi-stabile da lustri equivale a scarsa o nulla fame di egotismo. La prova che aspettavo.
Il disco va presto al punto, rassicura ma pure sorprende. La voce parte in linea con l’età, la pennata è secca; poi il ponte: Page s’arrochisce, il giro diventa un classico staccato à la Helmet; il ritornello è scanzonato. Betty sorride. E che rullata, ragazzi! Abile nel limare la nostalgia che abbiamo di Stainer e dei brividi che ci diede per anni. Ora potrei annotare che questa era “Holiday”, che “Bombastic” sgomita per il primato, che “Tell Me Again” è curiosamente acustica, che “Resolution” è un’interessante rilettura, col supporto di un quartetto d’archi, di un brano contenuto su quello che è considerato lo zenit di John Coltrane (A Love Supreme, 1965), di quanto sappia di casa la caratteristica asciuttezza dei titoli affiancata alla secchezza esecutiva, che “Dislocated” è una gradevole virata dalla rotta principale.
Potrei, e forse prima o poi lo farò. Per ora voglio solo farmi un po’ cullare dalla nostalgia. Quanto a voi, voi che avete cara la differenza tra l’indie in scarpe da tennis e la divisa del tatuaggetto, potreste considerare di fare altrettanto.