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Vi potrà sembrare ridicolo ma, benché io sia categorizzabile ancora come “GGGiovane redattore”, ho comunque la fortuna di riuscire ad emozionarmi quando si presenta la possibilità di analizzare e recensire determinati nomi, con un brivido di nostalgia per un passato mai vissuto. Il nome in questione è quello dei tanto sfortunati quanto resilienti statunitensi Morbid Saint. Il motivo? Semplice. Durante le passeggiate mattutine che dalla mia magione mi conducevano presso l’università Campus Einaudi di Torino, tappa obbligata era la vetrina di Materiale Resistente, storico negozio di dischi del centro città. Un’offerta particolare, costituita da classici in edizioni rinomate così come piccole gemme e rarità. Ebbene, fu proprio una di queste gelide mattine invernali che l’occhio mi cadde su un titolo e una copertina estremamente accattivanti ed evocative, nonché sull’elevatezza del prezzo applicatovi: ben 50 (!!) euri per un CD. Insomma, inforcate le cuffiette e via con il brutale e forse non abbastanza apprezzato Spectrum Of Death, autentico disco-culto della scena thrash-death dei primi anni ’90. Che spettacolo!
Quest’oggi, a distanza di più di trent’anni dalla pubblicazione di quel disco, posso vantare l’onore di scrivere del nuovissimo titolo del Santo Morboso ovvero un altrettanto valido e a suo modo storico Swallowed By Hell. Va detto per amor di cronaca che nel 2015 vide la luce il secondogenito, Destruction System, che faceva però risalire la propria genesi al 1992, prima che il lunghissimo iato privasse i metallari della loro presenza, recuperata per l’appunto una decina di anni or sono.
Se i Morbid Saint non spiccano per continuità e prolificità, lo fanno senza dubbio per capacità compositive, tecniche ed esecutive, unendo al tessuto thrash metal arricchimenti di valore dal contesto sempreverde del death metal. D’altronde, proprio essi furono tra i primi a creare uno stile molto particolare, dove attitudine e velocità si univano ad una cattiveria di fondo sia delle tematiche sia delle strumentali stesse, da manuale. Il parossismo ottenuto allora si ripresenta senza cedimenti anche oggi, e sin dalle battute iniziali di “Rise From The Ashes” si capisce che non si tratta di uno di quegli scialbi ritorni fatti per allontanarsi dalle proprie famiglie per qualche serata in sala ed una birra in memoria dei vecchi tempi: questi signori spaccano i deretani e hanno da dire la loro anche rispetto a molte nuove leve, magari in grado di infilare qualche tempo dispari di mezzo ma meno abili se si parla di causare un forte prurito alle mani e un istintivo delirio ai muscoli del collo. Difatti, il vorticoso riff che introduce il brano risulta essere un antipasto ad una serie di evoluzioni ardite di tutti gli attori coinvolti, i quali possono essere paragonati tranquillamente all’effetto di una gettata di napalm: semplicemente distruttiva.
La canzone omonima al disco mantiene il tutto sui binari di strutture immediate e comprensibili ma tutt’altro che scontate. La varietà dei giri riesce a farsi base per molti cambi di rotta sui quali si stagliano i testi di Pat Lind, chiamato da sempre a fornire i suoi ringhi assassini alle strofe e ai ritornelli, spesso trascinanti.
Il basso di Bob Zabel, fautore di suoni corposi e che spiccano parecchio nei livelli dell’album (che bellezza), detta il tempo di danza di “Bloody Floors”, prima che una corale “Burn Pit” rimescoli ancora le carte con le chitarre di Jay Visser e Jim Fergades protagoniste in prima linea nel delineare un’introduzione strutturata armonicamente per scalare di ottave armonizzando un riff tagliente che poi deflagra nell’ennesimo, vorticoso assalto sonoro.
“Fear Incarnate” fa sì che anche il bravo DJ Bagemehl alla batteria si possa esporre di più, aprendo con una strumentale terzinata e velocissima uno dei brani che più ho apprezzato dell’opera. “F**k Them All” vive di momenti molto interessanti ed in un ritornello rallentato che invita a « fregarli tutti » giacché « nessuno scapperà e moriranno tutti ». La sezione solista è di gran livello e il brano tutto richiama anche la copertina stessa di Swallowed By Hell, che ha come protagonista un energumeno muscoloso che squarta con due machete un gruppo di impiegati. Avete presente gli slasher anni ’80, nei quali la trama era solo un pretesto atto ad imbandire un banchetto di sevizie, torture, omicidi (spesso decisamente comici) e brutture varie, tanto da arrivare a creare la definizione Horror Di Serie B? Be’, la musica dei Morbid Saint riporta proprio a tali atmosfere e per il sottoscritto non è contemplabile che tale dichiarazione possa essere un insulto – tutt’altro, un motivo di apprezzamento ulteriore!
“Pine Tuxedo” e la conclusiva “Pshycosis” gettano il cuore oltre l’ostacolo e mostrano qualche sperimentazione in termini di riff ed addirittura suggestioni dissonanti, sempre ben equilibrate rispetto allo stile personale del gruppo. Unico neo, a mio avviso, “Killer Instinct”: non mi ha convinto fino in fondo.
Reputo Swallowed By Hell un prodotto di fascia alta, ben prodotto e registrato, fulgido esempio di un carattere che sembra lentamente sparito negli ultimi vent’anni, quantomeno nel mercato principale/commerciale, e che una volta invece era quasi più importante della proposta musicale in sé. Questo è un disco da ascoltare se state architettando una malefatta, perché vi accecherà di rabbia e violenza e come il whiskey per i Pellerossa, fomenterà la vostra sete di sangue… Come? Non si può rilasciare una dichiarazione di tale natura? Ma allora il metal, musica regina per provocazione e istigazione, che cosa lo ascoltate a fare? Per poter fare le storie su Instagram…?
E con questa tanto inutile quanto irrispettosa provocazione, vi saluto invitandovi Beyond The Gates Of Hell. Hail metal! Hail Morbid Saint!