MY DYING BRIDE – A Mortal Binding

Titolo: A Mortal Binding
Autore: My Dying Bride
Nazione: Inghilterra
Genere: Death doom
Anno: 2024
Etichetta: Nuclear Blast

Formazione:

Andrew Craighan        Chitarra
Aaron Stainthorpe      Voce
Lena Abé                     Basso
Dan Mullins                 Batteria
Shaun MacGowan       Tastiere, Violino
Neil Blanchett             Chitarra


Tracce:
  1. Her Dominion             06:10
  2. Thornwyck Hymn             06:47
  3. The 2nd of Three Bells 06:52
  4. Unthroned Creed             07:00
  5. The Apocalyptist             11:22
  6. A Starving Heart             07:29
  7. Crushed Embers             09:02

Voto del redattore HMW: 7,5/10
Voto dei lettori:
Ancora nessun voto. Vota adesso!
Please wait...

Visualizzazioni post:483

Nella mia breve e felice carriera di scribacchino per questa testata, mi sono sempre confrontato con gruppi e dischi che (qualche piccola eccezione a parte), in fondo, non mi hanno mai creato grattacapi più di tanto.

Però sapevo che sarebbe arrivato il momento in cui avrei dovuto recensire un album che sarebbe risultato complicato.
E quel momento è arrivato con questo nuovo A Mortal Binding dei My Dying Bride.

Scrivere degli inglesi è per me esercizio intrigante e, allo stesso tempo, complesso.

Perché la premiata ditta Craighan–Stainthorpe rappresenta ben di più di un semplice complesso metal che mi piace.
Incarna uno di quei momenti topici nella vita di ascoltatore e, più genericamente, di metallaro che ognuno di noi ha.

Era il 1995 e da buon sbarbatello mi recai al fu Palatrussardi per il concerto della Vergine di Ferro, nel tour del famigerato The X Factor (quando ancora il collegamento con quel trucido programma TV che oggi ricorda ancora non esisteva, ma se ne discuteva soltanto perché c’era un certo cantante nuovo).
Quell’anno i mitici si portarono in tour un paio di gruppi che, all’epoca non avevo idea di chi fossero. Gli Almighty e questi My Dying Bride.

I nostri facevano quindi di spalla ai connazionali Iron Maiden, pur non essendo alle prime armi, dato che presentavano la loro terza uscita discografica, The Angel And The Dark River.

Eviterò qui di dilungarmi in un commento all’album, anche perché, oltre a non esser la sede adatta, alla fine ero lì per gli Iron e, lo ammetto, non è che ci avessi capito granché di quel concerto.
D’altra parte ero un pischello che sapeva a malapena cosa fosse l’heavy metal e tutto ciò che esisteva oltre i sopraccitati era per me ancora una grossa incognita tutta da scoprire. Però era stato sufficiente quello squarcio di tempo che ebbe la Sposa Morente (penso qualcosa tra i quarantacinque minuti e l’ora) per creparmi il cervello.

A tutti noi è successo, a tutti è capitato quel momento in cui il nostro cranio è stato letteralmente aperto in due da qualche gruppo, che siano i Maiden o che siano i Carcass o che siano gli Emperor o altro (per spaziare tra i generi), quell’attimo in cui tutto è cambiato. Quell’istante in cui abbiamo scoperto che c’era altro sotto la superficie del mare magnum in cui stavamo nuotando fino a quel giorno. Qualcosa oltre, quel qualcosa che condiziona letteralmente il nostro gusto musicale e che ci porteremo dietro per sempre.

Parecchi anni dopo, descrivere il nuovo lavoro dei My Dying Bride diventa quindi un esercizio che tocca corde molto sensibili. Specialmente per chi, come me, ha amato praticamente ogni uscita, ogni canzone, ogni nota.

Dopo questo lungo prologo (di cui mi scuso, ma che reputavo importante per contestualizzare) parliamo finalmente di A Mortal Binding.

Quattro anni dopo The Ghost Of Orion, uscito in periodo di covid e partorito dopo un periodo di lunghe e difficili sofferenze personali di Aaron (legate alla salute della figlia), non sapevo veramente cosa aspettarmi. Sono uno che dà veramente poco peso alle attese e tende a non informarsi più di tanto sulle dichiarazioni di questo e di quell’altro, perché è la musica quella che conta.

Ebbene, sin dalle primissime note d’apertura di “Her Dominion” si capisce che il vento è cambiato parecchio in questo lasso di tempo.
Se il predecessore era infatti un lavoro esso stesso sofferente, molto pesante, un macigno sia sonoro sia psicologico portato avanti con dolore, con claustrofobica allucinazione, però delicato e soffuso, qui è la cattiveria e la violenza che la fanno da padrone.
Tornano con prepotenza, già dalle prime battute, il growl fangoso di Aaron e gli armonici artificiali; una dose di contorsionismo compositivo che mancava da quello che considero l’ultimo grande album dei nostri (A Line Of Deathless Kings), un palm muting tornato padrone delle canzoni; alla fine ci sono i riff.

Gli ultimi album erano molto legati allo sfruttamento delle melodie, al servizio del pezzo, da cui originavano poi tutti gli altri elementi della canzone. I riff, che erano il centro di capolavori come Turn Loose The Swans o del già citato Angel… , si erano un po’ persi nel loro modo di comporre.
Ora, assoldati i due fratelli illegittimi del chitarrista fondatore Andrew (la somiglianza sia con lui sia tra di loro è sinceramente impressionante) all’altra chitarra e alla batteria (Dan è in realtà un rientro), il gruppo ha consolidato la formazione, dando agio alla stesura dei pezzi come unione, più come come gruppo, piuttosto che come singol(o)i.

E si sente.
Da qualche anno, infatti, i My Dying Bride avevano ammorbidito e uniformato un po’ la loro produzione. Il che era evidente perché la linearità dei pezzi era marcata e, pur mantenendo intatti i loro tratti fondanti di malinconia, malessere e disperazione, consentivano una fruizione e un’assimilazione rapide.
È come se avessero trovato una formula magica con cui entrare in contatto coi propri sentimenti e li traducessero perfettamente, quasi che non servissero tramite complicati con cui farli comprendere ai più. For Lies I Sire o il seguente A Map Of All Our Failures non avevano bisogno di più di un ascolto per essere apprezzati. Qui, A.D. 2024, ci troviamo di fronte a sette canzoni oggettivamente meno immediate, apparentemente più contorte, ma finalmente anche molto metal, molto doom, molto death.

Con un lavoro di batteria finalmente apprezzabile (ci sono stati dei momenti della loro carriera in cui sarei disposto a scommettere che i nostri avessero usato delle parti scritte al computer e non un vero batterista), con il violino di nuovo complemento e molto meno posticcio di altri lavori, con il basso di Lena Abé tornato ben udibile e anche protagonista in alcuni momenti.

Un lavoro quindi vario, dove tornano a sentirsi gli stralci dei My Dying Bride che furono, uniti alla verve decadente e melodica che solo loro sono in grado di proporre, oggi come trent’anni fa.
Non c’è un gruppo come loro, solo tanti emuli.

Per entrare un po’ più nel dettaglio, mi limiterò a raccontarvi di quanto l’impatto di “Her Dominion” sarà forse spiazzante, mentre non vi parlerò delle due successive che avrete sicuramente già sentito (anzi visto), salvo forse raccontarvi che “Thornwyck Hymn” mi era parsa una traccia facilotta, quasi di mestiere. Però ho cambiato idea.
Della delicatezza con cui inizia “The Apocalyptist”, che però poi si trasforma in qualcosa che mi ha ricordato la death “The Forever People”, per poi cambiare ancora pelle e diventare una delle cose migliori fatte dai nostri negli ultimi anni.
Oppure di quanto sia riuscita “A Starving Heart”, nel suo lento incedere e nel suo clima disperato.

Sarebbe per me facile arrivare a fine recensione e dirvi che questo è un capolavoro imperdibile e dargli un voto tranquillamente sopra l’8,5. Anche 9.
Però devo essere oggettivo e razionale.

Pertanto vi dirò che questo lavoro si piazza nella fascia alta della loro produzione, superando senza sforzo almeno un paio dei dischi che hanno pubblicato tra il 2006 e il 2024.
Vi dirò anche che stazionerà a lungo sia nelle mie sia nelle vostre rotazioni, perché è un disco veramente ben fatto, malinconico, triste, doom.

Ma, sarà l’età, sarà la saggezza, non posso raccontarvi che fa a gara con The Dreadful Hours – giusto per citarne uno non preistorico.

Un ritorno ottimo, per una formazione che ritrovo finalmente in uno stato di forma notevole e che ha ancora diverse frecce al proprio arco. Capace di condensare in queste sette tracce tutto quello che è stata e che è oggi.

Semplicemente i capostipiti del death doom.
Gli unici rimasti.

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.