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Recensione scritta da René Urkus.
Epic Doom Metal: quando sento questa definizione la mia mente vola a un solo e unico disco, “Resound The Horn” dei DoomSword, che a mio giudizio incarna in modo perfetto e irripetibile l’essenza del genere. Ma so di essere in minoranza, perché di fronte a questa formula la maggior parte dei metalheads pensa a Candlemass, Solitude Aeternus o, magari, fra le nuove leve, agli Smoulder; ed è in questo oscuro bosco che si muovono anche gli Stygian Crown, da Los Angeles, California, che oggi danno alle stampe il loro secondo album.
La titletrack è un mirabile e potente strumentale di poco meno di tre minuti; segue “Bushido”, con il suo riff ipnotico e i suoi suoni pesantissimi. La linea vocale di Melissa Pinion, che si occupa anche delle tastiere, è molto ben concepita, sospesa fra i sopracitati Solitude Aeternus e toni che mi hanno ricordato i primissimi Domine. Songwriting di squisita fattura per “Scourge Of The Seven Hills”, un brano che si fa mistico grazie anche a un dolce tappeto d’organo; qui si sente bene l’eco dei migliori Candlemass, soprattutto nelle immense distorsioni delle chitarre. Un doom più classico per “Where The Candle Always Burns”, mentre la ballata “Blood Red Eyes” sorprende con un arrangiamento di solo piano e violino. Lo stacco con il resto dei brani – anche il cantato di Melissa è completamente differente – è quasi eccessivo… la chiusura è affidata a “Strait Of Messina”, dai toni quasi sacrali, con una lunga coda strumentale in lieve crescendo; non credo che i nostri possano conoscerli, ma mi sono venute in mente due formazioni italiane che fanno una sorta di doom ‘spirituale’, i Trinakrius e i Sangreal.
A mio parere manca del tutto, nel sound, la componente death metal annunciata dalla nota stampa: chissà i losangelini che cosa intendevano… in ogni caso la Cruz Del Sur non ha sbagliato (e non le capita quasi mai) ad assicurarsi i fumosi servigi di questi statunitensi, reduci anche da una buona esibizione all’Up The Hammers ad Atene.