CHAPEL OF DISEASE – Echoes of Light

Titolo: Echoes of Light
Autore: Chapel Of Disease
Nazione: Germania
Genere: Progressive Death Metal / Hard Rock
Anno: 2024
Etichetta: Van Records

Formazione:

Laurent Teubl Voce, Chitarre, Basso, Tastiere
Cedric Teubl   Chitarra
David Dankert Batteria


Tracce:
  1. Echoes of Light                  08:28
  2. A Death Though No Loss 08:23
  3. Shallow Nights                    07:57
  4. Selenophile                         05:42
  5. Gold / Dust                         05:32
  6. An Ode to the Conqueror 06:05

Voto del redattore HMW: 6/10
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Questo lavoro è il classico esempio di disco in grado di spiazzarti.
In bene o in male, cercherò di spiegarvelo nelle prossime righe.

Cominciamo col dire che, personalmente, non avevo mai sentito nominare questi signori tedeschi e, se sono qui scrivervi due parole, è solo grazie all’internet e al fatto che il vituperato algoritmo, ogni tanto, ti piazza qualche proposta che ha effettivamente ragione di esistere.

I Chapel Of Disease nascono nel 2008, dal connubio dei due fratelli Teubl (Laurent e Cedric) alle chitarre e voce e altri due sodali con i quali decidono di fondare una band che suona death metal. Come si evince anche dall’informazione reperibile su metal archives per cui il nome deriva dall’unione dei titoli di due canzoni dei Morbid Angel : “Chapel of Ghouls” ed “Angel of Disease“.
Quindi un chiaro percorso tracciato.

Qui però recensiamo il loro quarto lavoro in studio, assolutamente senza avere la benché minima idea di come suonino i primi 3.

Infatti alle info sopra riportate ci arrivo una volta che tento di capire chi siano questi carneadi dopo aver ascoltato il singolo estratto da questo Echoes of Light : Shallow Nights.
Si perché Shallow Nights tutto è tranne che death metal…

Andiamo con ordine.

Pigiato play sul lettore (dopo averlo ricevuto fisicamente), l’impatto con i primi riff della traccia d’apertura, che porta il titolo al disco, è abbastanza disorientante.
Il terreno in cui si muovono i nostri è un rock a tinte progressive, con una chiara influenza proveniente più dal black che dal death metal. Infatti paiono evidenti i rimandi a realtà più conosciute come i Tribulation o i Cloak che hanno portato sulle nostre tavole questo ibrido ben riuscito di un black metal comunque molto nero nell’animo, ma condito di quella verve puramente rock che solo i primi citati sono riusciti a rendere in maniera quasi perfetta.

Peccato che, devo dirlo, i primi due pezzi mi risultano un po’ indigesti, quasi forzati direi.
Si muovono sui canoni descritti, spingono abbastanza sull’acceleratore e sulla foga, ma ci sono, in almeno un paio di occasioni, delle evidenti forzature, delle esagerazioni nel voler puntare su alcuni stilemi che si sente non essere proprio il loro campo da gioco. Col risultato di consegnarci due pezzi oggettivamente non brutti, però non memorabili e anche un po’ difficili da digerire. Questo nonostante siano portatori di melodie di facile presa e interessanti fraseggi. La mancanza di sintesi contribuisce a non dargli il giusto piglio.

Dal singolo Shallow Nights in poi, però, cambiano un po’ le cose.
Intanto questo pezzo è oggettivamente valido, che gioca su un terreno tutto diverso, a tinte blues, southern, che possono ricordare gli Alice in Chains, con atmosfere quasi pinkfloydiane (vi prego prendete la cosa con le dovute proporzioni) e ne esce una ballata che funziona molto bene. Dove la chitarra e gli assoli giocano il ruolo di principali attori, andando a cambiare di molto la proposta fino a quel momento.

Fortunatamente, il prosieguo del disco viaggia su queste ultime coordinate.
Sin dalla successiva Selenophile ci troviamo di fronte ad un rock energico e blueseggiante, sempre proposto con voce a cavallo tra il death e il black, conferendo un’aura strana, poiché pur mantenendo punti di contatti evidenti con le band citate, si riesce ad intravedere uno sprazzo di personalità e una buona dose di scioltezza.
Arriviamo quindi a Gold/Dust, altro pezzo dal minutaggio non esagerato (come i primi due pezzi), che inizia con un arpeggio evocativo ed accattivante, che sfocia in un riff portante intrigante e che si stampa facilmente nella memoria di chi ascolta. Una bella cavalcata questa, con ritmi sostenuti e che, grazie alla (relativamente) breve durata e al solito buon lavoro delle chitarre, risulta piacevole e godibile. Con un finale quasi NWOBHM.

Si giunge quindi alla conclusiva An Ode to the Conqueror che, dopo un’inizio spumeggiante, rallenta al punto da fermarsi, dove troviamo un cantato quasi sussurrato accostato a degli arpeggi di chitarra pulita che fanno da parte centrale al pezzo. Che si conclude poi con un lungo strascico strumentale, dove ancora una volta le melodie di chitarra prendono tutto lo spazio disponibile.

Giunti alla fine il risultato è dolceamaro.

E’ un disco di difficile collocazione, proprio perché non è, di fatto, né carne né pesce e vive i momenti migliori nelle divagazioni puramente chitarristiche (che mai sfociano nel mero sfoggio tecnico). Queste possono piacere o meno, ma sono centrali quasi in ogni traccia di questo Echoes of Light. Ne consegue che chi ascolta debba farsi coinvolgere da queste melodie e lasciarsi trascinare.
Se questo riesce meno bene nelle due tracce iniziali (per quanto non possano assolutamente essere bollate come brutte), nelle altre quattro si nota una scioltezza e una naturalezza in più che rende alla fine più godibili e piacevoli le canzoni.

Una produzione pulita, ma con la giusta dose di sporco, rende giustizia all’obbiettivo che si voleva ottenere.
Il problema, se vogliamo, risiede proprio in questo punto, dato che non è chiarissimo quale tipo di direzione volessero prendere i nostri con questo album che, a parer mio, è una specie di compromesso tra diverse nature e influenze che ci sono nel gruppo.
Prova ne è che, a quanto risulta, al momento solo uno dei due fratelli Teubl è rimasto in formazione e si registra la dipartita di tutti gli altri.
Forse qualcosa non ha girato come doveva.

Punto di domanda.

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