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Annerito a più non posso dalla variante alla tipica formula doom, la proposta dal trio dei Temple Of The Fuzz Witch di Detroit non lascia adito a fraintendimenti: si può imbestialire la lentezza e aggrovigliare in un “maelstrom” la velocità!
Il proposito del nuovo Apotheosis, terzo capitolo discografico della band statunitense, risulta chiaro e ben riuscito nel complesso grazie alla commistione di testi occulti che si sprigionano sia in vereconde esplosioni gutturali del cantante e chitarrista Noah Bruner, come è possibile percepire nella iniziale “A Call to Prey”, sia in effettate e ritualistiche voci che particolareggiano altre composizioni del calibro di “Nephilim”. Su quest’ultima notiamo anche la principale variazione al canovaccio proposto negli episodi discografici precedenti, ovvero l’ingresso di sezioni black più consone a tale stile legate ai blast beat del batterista Taylor Christian.
Mancano quasi totalmente passaggi solisti, ma d’altronde in un’opera di siffatta forgia non sarebbero l’elemento di maggior rilievo, anzi l’evocativa ripetitività del riff la fa da padrona come in “Sanguine” o “Cursed”. Ciò che incorre come cambiamento ed evoluzione alla già citata prima fase di carriera del gruppo è una leggera variazione nella chiave di lettura e composizione dei riff stessi verso una componente stoner, percepibile perlopiù nel giro portante del singolo “Bow Down” e presto dimessa dall’instabilità sonora di “Wight”.
Nonostante premesse tali, non manca ariosità, soprattutto nei ritornelli e la sensazione di essere in una cripta (o meglio in un Tempio), benchè non scomparsa, quantomeno ci fa pensare a qualche breccia nel muro dal quale entra un vago e debole bagliore di luce solare. Certo, sapere di essere vicini ad un’uscita inafferrabile non è di per sé una sensazione ancor peggiore di essere in trappola?
I Temple Of The Fuzz Witch ci intrappolano con il loro Blackened Doom, ma riescono a farlo spingendo su una scaturente sindrome di Stoccolma. Nerissima.