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Sapevo che sarei esplosa. Che dentro la sconvolta alienazione dei Kong avrei ritrovato lo stesso cobalto rovente che mi fu colato in gola trent’anni fa, appena poco raffreddato. Un virus, Drillich o non Drillich, che impugna il governo della mente di chi vi si accasa. L’acqua sotto i ponti nederlandesi è scorsa ad oceani, ha tappate le bocche, anneriti i bacini, intorpidita la pelle, ossidato appena lo spirito. Proprio così, tre decenni da quando un’agguerrita Dreamtime duellava con Digby Pearson e la sua Earache lungo il ripido fianco dell’azzardo. Decenni lungo i quali i Kong si sono nicchiati quanto basta.
Oggi come allora, Kong è un pantano mucìparo che ci scruta fissamente e con le labbra serrate, con la fronte corrugata e il sudore freddo dell’attesa. Oggi come allora – pochissime le eccezioni passate (la fumata bianca di “Back Into The Trees”, su Merchants Of Air) – il loro noise industrialoide non dà adito ad intrusioni vocali.
I crescendo cautamente stratificantisi poi seguiti da diminuendo a caccia di nuove accumulazioni, i campioni sempre ficcanti, l’equilibrio che mai ha difettato loro, qualche riff à la Rollins Band prima incarnazione (un sentore che li segue forse da sempre), un po’ della scontrosa solennità dei Ministry epoca Paul Barker, poche chiodate à la Helmet. La creatività. I Kong non sono legati alla prevaricazione intestina e, se è vero che calza loro poco quell’eccesso di armonia in “Ripper”, è anche vero che abbiamo appena parlato di equilibrio. “Mirrorizon” abbacìna come certe cose di Undertow dei Tool, “Hit That Red” è violenza pezzata di pietà, “Destressed & Unrestrained” espone ciò che oggi definiamo post-rock… e… “Flat Earth Sobriety”… che viaggio, ragazzi!
Questi sono i Kong. Questa è la storia di chi va rispettato, di chi al mattino è in ufficio e la sera in sala prove e la spesa la paga con lo stipendio da impiegato. Se avete amato Rumore e Rockerilla, e se la vostra collezione spazia dalla Arab On Radar alla Zeni Geva, Traders Of Truth è il vostro disco.