SEVEN SPIRES – A Fortress Called Hom

Titolo: A Fortress Called Home
Autore: Seven Spires
Nazione: Stati Uniti D'America
Genere: Symphonic Metal
Anno: 2024
Etichetta: Frontiers Records

Formazione:

Adrienne Cowan: voce e tastiera
Jack Kosto: chitarra
Peter De Reyna: basso


Tracce:

01. A Fortress Called Home
02. Songs Upon Wine-Stained Tongues
03. Almosttown
04. Impossible Tower
05. Love’s Souvenir
06. Architect of Creation
07. Portrait of Us
08. Emerald Necklace
09. Where Sorrows Bear My Name
10. No Place for Us
11. House of Lies
12. The Old Hurt of Being Left Behind


Voto del redattore HMW: 8/10
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Gli americani Seven Spires, dopo il bel debutto del 2017 con Solveig, hanno avuto un continuo crescendo offrendo un metal sinfonico tradizionale e teatrale incorporando elementi metal estremi nel loro sound sempre fresco e talentuoso. Basti pensare a Emerald Seas del 2020 e a Gods Of Debauchery del 2021 che hanno colpito nel segno per la forza espressa, la profondità sonora e soprattutto la potenza vocale della versatile cantante Adrienne Cowan. La formazione è sempre la stessa anche se nell’ultimo periodo il batterista Chris Dovas si è allontanato momentaneamente perché impegnato con i connazionali Testament e non risulta accreditato in questo nuovo lavoro in studio. Il bassista Peter de Reyna introduce un commento su A Fortress Called Home:

“Questo album ti costruirà e ti distruggerà in vero stile Seven Spires. Non potrei essere più orgoglioso della vita che è stata creata in questo nostro quarto disco. Goditi l’angoscia, crogiolati nella gloria e ti vedremo dall’altra parte”.

Il nuovo lavoro in studio è il naturale seguito di Gods Of Debauchery perché ripropone anche qui il loro miscuglio stilistico fatto di sinfonica e metal estremo che trascina verso l’oscurità della vita. Questo aspetto rende la loro musica più complessa, orchestrale e variegata come si ode da subito nell’iniziale title track. Song sinfonica e per certi versi anche prog e power metal in cui Adrienne Cowan alterna tonalità dolci a timbriche gutturali con in sottofondo maestosi cori, mentre i suoi compagni di band offrono con i loro strumenti ritmi veloci e serrati. Il primo singolo, “Almosttown”, brilla per i suoi elementi orchestrali e le tenui melodie che lo catapultano questa volta verso un heavy melodico con interessanti cambi di tempo e un orecchiabile ritornello. La forza dei Seven Spires è quella di muoversi delicatamente tra la leggerezza delle orchestrazioni e la prepotenza della voce accompagnata da una battente sezione ritmica, creando una contrapposizione di bellissime e stravaganti armonie. Invece il secondo singolo, “Architect Of Creation”, è una traccia assolutamente più robusta e buia, caratterizzata sempre da elementi sinfonici e un cantato iniziale gutturale e demoniaco, che contrasta con il ritornello vocalizzato dalla bella singer in modo pulito e più acuto in modo da seguire l’atmosfera sinistra e inquietante della composizione. Il terzo singolo e ultimo in scaletta, “The Old Hurt Of Being Left Behind”, punta dritto ad un melodicissimo e sognante refrain impregnato da un’aspra ugola, che si accavalla a musiche orchestrali prima di lasciare il posto a un suono pomposo, epico e da un pazzesco momento di chitarra solista eseguito dal virtuoso Jack Kosto alla chitarra elettrica. I tre singoli son la forza trainante dell’opera ma non scherzano brani come la medievale, “Songs Upon Wine-Stched Tongues”, in cui Adrienne Cowan duetta con una voce maschile, in un contesto guidato sempre da maestose orchestrazioni sinfoniche che rendono il brano coinvolgente e in alcuni tratti riflessivo e molto vicino allo stile Kamelot, grazie al pianoforte, ai violini, agli archi e ad alcuni synth. Interessante il vivace e allegro, “Portrait Of Us”, che rispetto alla traccia precedente è pieno di contrasti per via della presenza di tocchi jazz e parti AOR che si alternano in una melodia che viaggia a corrente alternata sotto i colpi ruggenti dei riff e del portentoso assolo della sei corde elettrica. Sinceramente è qui che si tocca con mano la complessità e l’articolazione del gruppo che porta, in questo caso, a riascoltare più volte la canzone prima di comprendere bene tutti i complicati passaggi musicali di questi quattro artisti. La deprimente, “Love’s Souvenir”, dal groove jazzistico, è la traccia che risulta indigesta soprattutto per le voci operistiche e drammatiche che la ricoprono. Un pianoforte melanconico, un cupo violino e le versatili corde vocali della Cowan, questa volta non fanno decollare una song molto pacata nei primi minuti e poi dopo più dura, maestosa e oppressiva nell’ultima parte. Si apprezza sicuramente di più la soave ballata “Emerald Necklace”, che verso la conclusione del platter, rallenta il ritmo non solo a livello strumentale ma soprattutto vocale. Qui la diavoletta Adrienne Cowan si trasforma in un angelo cantando celestialmente portando pace e amore dentro i cuori di tutti. Il lento presenta delle sfumature celtiche, super romantiche e un ritornello cinematografico da far venire i brividi in tutto il corpo. La ciliegina sulla torta è poi il doloroso e impetuoso assolo chitarristico dell’ottimo Kosto. Dopo tanto sentimentalismo, per fortuna viene incontro la possente e sinistra, “No Place For Us”, il cui robusto sound di death metal si deve adeguare a momenti sinfonici culminanti con la splendente e soave voce della cantante che è contrastata da un altrettanto rude e aspra voce maschile. La drammatica e cadenzata, “House Of Lies” è poi la punta dell’iceberg di un disco in cui i musicisti americani presentano intricate armonie a parti più semplici e accattivanti, dove prevalgono diversi stati d’animo e la pulita ugola di Adrienne. Jack Kosto fa un ottimo lavoro pure a livello di produzione e mixaggio rendendo tutti i suoni chiari e ordinati sullo sfondo di paesaggi sonori molto intensi. Forse non siamo di fronte al loro miglior disco in studio ma sicuramente questo è quello più personale, maturo e dal maggior impatto emotivo. I Seven Spires non si accontentano mai di restare in un unico genere, nonostante l’evidente base power metal di quasi tutte le tracce anche se le influenze di stili come il death e il doom sono abbastanza evidenti.

Adrienne Cowan afferma: “Ho visitato il vuoto due volte mentre scrivevo questo album. Non so quale abbia generato l’altro. È brutto. Lo adoro e lo odio, e penso che sia il nostro miglior lavoro finora”.

 

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