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I tempi di American Idol per James Durbin (Durbin ex Quiet Riot) sono per fortuna molto lontani e oggi dopo tanta gavetta è cresciuto ed è diventato un ottimo cantante. Nel corso degli anni il giovane statunitense ha collaborato con una serie impressionante di musicisti, tra cui Stevie Wonder, Don Was, Zakk Wylde, Tom Jones e Mick Mars dei Mötley Crüe. Oggi continua a mettere in luce il suo talento con il progetto messo in piedi dalla Frontiers Records chiamato Cleanbreak insieme al chitarrista Mike Flyntz (Riot V), ad Alessandro Del Vecchio (Hardline, Edge Of Forever) tastiera/basso e al batterista Nicholas Papapicco (Toby Hitchcock, Robin McAuley).
“Questa è una grande raccolta di canzoni che ho avuto il piacere di cantare e interpretare. Mike Flyntz è una bestia assoluta alla chitarra ed è stato un onore lavorare con lui. Grazie a tutti i nostri fan collettivi e ai fan dei Cleanbreak. Amiamo fare musica per voi!”, afferma James Durbin.
Quindi, una band superlativa, talentuosa e con esperienza che offre agli esordi un puro heavy metal, influenzato da Judas Priest e Riot V, senza fronzoli e compromessi di alcun tipo ma che adesso presenta delle novità. Questo secondo album: We Are The Fire propone quasi undici tracce, sorprendentemente con stili diversi ma che, per fortuna, esaltano il virtuosismo del bravissimo Flyntz, capace di sfornare abilmente riff potenti e assoli micidiali e melodici, come nell’iniziale e trascinante “Warrior’s Anthem”. In questo euro power metal, Durbin guida il pezzo con sicurezza e aggressività ma lo farà per tutto il disco, con la sua voce chiara ma sempre potente e ricca di acuti impossibili sembrando in certi momenti imitare quella di leggende del genere come Dio, Rob Halford e Russell Allen. In “Never Gone” si sente quel suono a stelle e strisce marchio di fabbrica degli Hardline del grande Del Vecchio con l’aggiunta di orientaleggianti assoli di chitarra. Certo James non è Gioeli dietro al microfono, ma la timbrica del giovane americano non scherza affatto. Poi se aggiungiamo un refrain ultra-melodico accompagnato da una cadenzata sezione ritmica e da una roboante keyboard allora siamo al top di gamma.
Nella successiva e mediocre, “Unbreakable”, il ritmato sound è ancora un metal a stelle e strisce, dove Flyntz, dalla sua potente sei corde elettrica sprigiona note imponenti e massicce. Durbin canta diversamente cercando di essere più sé stesso e lavorando con molta personalità nell’armonia dalla traccia. Anche in altri momenti la sua ugola è intensa e genuina. Insomma, c’è qualcosa di diverso che migliora nel singer, come nell’interpretazione tirata nella veloce e melodica “Can’t Lose Hope”. Nel proseguo il nostro Alessandro sale in cattedra con la sua ipnotica tastiera nell’apertura e nel continuo della super orecchiabile, “Breathless”, mid-tempo ottantiano e radiofonico molto gradevole ed energico. Dopo questa sdolcinata e brevissima parentesi, la robusta chitarra elettrica di Mike torna prepotentemente in pista con l’incisivo hard rock classico di “Deal With Yourself”; brano ricco di riff ruggenti e affilati come rasoi e da assoli ben realizzati. Siamo a metà dell’opera e Durbin e Flyntz continuano a portare l’ascoltatore indietro nel tempo quando il tradizionale melodic rock degli anni ’80 sfornava ballate da brividi. La pomposa e AOR, “Love Again” è proprio questo perché pesca dal tipico suono dei Rainbow, ma attira per l’interpretazione drammatica e sugli scudi di un Durbin che sinceramente sbalordisce positivamente. Pazzesco è poi il melodicissimo ritornello e gli emozionanti assoli chitarristici dell’impeccabile Flyntz.
Il facile cambio di registro del vocalist americano insieme al lavoro strumentale dell’amico Mike sono le fondamenta di tutti i brani del platter. La ciliegina sulla torta è poi l’innesto del fantastico Del Vecchio in grado di creare atmosfere sinfoniche ed ammalianti come nel caso di “Bide Our Time”, che stranamente sembra uscita da un disco di una band nord europea come gli Stratovarius e con un Durbin che sembra l’imitazione precisa di Timo Kotipelto. Probabilmente questo saltare dai suoni tipicamente americani a quelli scandinavi e anglosassoni sembra un limite di questa band. La varietà e l’incontro di stili diversi non è affatto un reato e neppure una cosa brutta ma nel contesto in cui escono James e Mike sembrano delle forzature e delle direzioni poco credibili. Nella terz’ultima ed heavy rock, “Start To Breathe”, il combo segue il filone sonoro e robusto propriamente americano (Queensrÿche) con parti ambientali e cambi di tempo che sfiorano il prog. Il battente e puro heavy metal fa capolino nella fragorosa title track cantata a squarciagola dal vocalist sotto i colpi ripetuti e ossessivi dei tasti di Alessandro, di una martellante sezione ritmica e di una tellurica e micidiale electric guitar. L’incessante batteria di Papapicco ritorna in auge insieme agli intermittenti riff della sei corde nell’inquietante e metal, “Resilence In Our Souls”, che sa molto di Priest, Manowar e soprattutto Riot V. Se in Coming Home, di due anni fa, si sentiva un heavy metal ottantiano già collaudato e sentito, qui in We Are The Fire ascoltiamo un impasto di hard rock melodico, sinfonico e power made in U.S.A. e made in Europe che lascia perplessi non tanto per i brani, che comunque in generale mancano di profondità e di momenti singolari, ma per la sincerità delle scelte artistiche del quartetto musicale. Di contro si apprezza la maturità e la grande estensione vocale del bravo James Durbin e il grintoso e tecnicissimo lavoro di chitarra di Mike Flyntz.