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Che terra gli Abruzzi, eh? Da florido catino di popolazioni pre-cristiane ad orgogliosa dimora di uno dei primi parchi protetti d’Italia – l’Occidente prevede che la Natura vada specificamente tutelata e non spontaneamente riverita –, questa regione è una delle arterie in cui scorre il sangue dell’originario essere italico. Schizzàtine via con la fantasia fino in nord Africa per prelevare il nome dall’ora ex isola di Φάρος / Pharos, gli abruzzesi Faro hanno da poco collocato il loro Nu-Man sugli scaffali dei nostri negozi di dischi.
Il precedente, Luminance, fu una bella sorpresa e tra queste pagine se ne parlò bene in virtù di una scrittura che, alle orecchie di allora come a quelle poco invecchiate di oggi, risulta di qualità. Tuttora sotto l’ala dell’Andromeda Relix e in formazione invariata, oggi i Faro sembrano però essersi chiusi dentro mura fattesi rapidamente asfittiche, ammuffite. Lo stile è invariato, convoluto; certi difetti acuiti (quei finali bruschi sono ora quasi odiosi) e di novità non se ne parla. È aumentata la porzione pop mentre quella prog è abbandonata a sé stessa. La batteria, prima elettronica, è stata qui affidata a mani e piedi umani senza beneficiarne minimamente – anzi, il suono è probabilmente identico e le parti sono confusamente frastagliate, smarrite. I brani incespicano, annaspano senza neppure l’affanno della ricerca.
Laddove le composizioni possano suonare, con non eccessiva frequenza, singolarmente gradevoli, rimane difficile riuscire a goderne nel complesso. Né sono servite ad incrementare quel senso di familiarità ed abitudine le consuete e ripetute sessioni di ascolto in un assortimento di luoghi ed umori. Ripetute sessioni di ascolto che si rendono necessarie quando ci si confronti con proposte che, di primo acchito, stridono.
Ma lo stridio persevera. Noncurante. Tutto è ripetitivo, noioso, raramente distinguibile.
Sarà per la prossima volta.