PORTRAIT – The Host

Titolo: The Host
Autore: Portrait
Nazione: Svezia
Genere: Heavy Metal
Anno: 2024
Etichetta: Metal Blade

Formazione:

Per Lengstedt – Voce
Christian Lindell – Chitarra
Karl Gustafsson – Chitarra
Fredrik Petersson – Basso
Anders Persson – Batteria


Tracce:

01. Hoc Est Corpus Meum
02. The Blood Covenant
03. The Sacrament
04. Oneiric Visions
05. One Last Kiss
06. Treachery
07. Sound The Horn
08. Dweller Of The Threshold
09. Die In My Heart
10. Voice Of The Outsider
11. From The Urn
12. The Men Of Renown
13. Sword Of Reason
14. The Passions Of Sophia


Voto del redattore HMW: 8 / S.V.
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Altra doppia recensione, a distanza di qualche mese dall’ultima realizzata, per la quale – come già per la precedente – non c’è stato contatto e nemmeno scambio di pareri preventivo (a parte il classico “mi piace” o “non mi piace”, che come leggerete non è del tutto scontato), per non influenzarsi vicendevolmente.

Anche stavolta in ritardo rispetto all’uscita ufficiale (datata 21 giugno 2024), eccovi il nostro pensiero su The Host, nuovo ed ultimo album dei Portrait valutato numericamente da un recensore su due, mentre l’altro glissa con insistenza. Buona lettura.

Recensione scritta da Lele Mr.Triton e Pol

[Lele Mr.Triton] A distanza di tre anni dal precedente lavoro in studio esce, a metà del 2024, il nuovo disco degli svedesi Portrait. Un bel concept The Host, incentrato su un soldato del XVII secolo, chiaramente in Svezia, ed i suoi patti con il demonio; come ogni buon concept i tempi si allungano e qui troviamo tredici tracce, quattordici se includiamo anche il minuto introduttivo di “Hoc Est Corpus Meum”, molto evocativo e perfetto per l’apertura.
Da qualche mese i Portrait rientravano ciclicamente nei miei ascolti, ma qualcosa mi portava sempre a ritardare di metter giù qualche parola, nonostante gli ottimi riscontri da parte della mia cerchia di contatti; quella sensazione di sentire dei brani che richiamano Il Re non mi esaltava particolarmente.
Ed invece mi sbagliavo, eccome se mi sbagliavo.
Gli svedesi continuano a suonare un heavy metal che ondeggia tra il classico, con qualcosa di epic ed un pizzico di influenze nordiche, e lo fanno maledettamente bene, riuscendo ad allontanarsi da quella impressione di “band copia di…”. Un bella partenza con “The Blood Covenant” non può che far bene alle orecchie degli ascoltatori, ma è dalla successiva “The Sacrament” che vengo rapito da questo disco. Vi sfido a non esaltarvi con questo pezzo, con un ritornello che, nella sua semplicità, raggiunge vette altissime (come la voce di Per Lengstedt). Il tributo ai Mercyful Fate si sente maggiormente in “Oneiric Vision” sia per la scelta delle voci doppiate che per la successione dei riff. Molto bella l’alternanza della parte acustica di “One Last Kiss” che diventa potente e ariosa nell’epico ritornello riuscendo a non cadere nella trappola del prevedibile lentone. Non ci si ferma un attimo, con “Treachery” di nuovo velocità nel riff iniziale e strofa più cadenzata che, per mia gioia, termina con uno sprazzo estremo: i Portrait aggiungono particolari inusuali per il genere per sottolineare passaggi della storia ed enfatizzare il momento. Ti distrai e ti sparano dritta in faccia “Sound The Horn”, un inizio tra black’n’thrash anni novanta, una mazzata sonora di cinque minuti con la voce che si sporca (quasi alla Sacred Steel) e le chitarre di Christian Lindell e Karl Gustafsson che si infuocano; l’assolo è brevissimo ma incisivo. Forse è una mia impressione ma, dopo questa serie esagerata di brani, i nostri si fermano un attimo ed infilano una serie di brani più semplici, se così si può dire; “Dweller Of The Threshold” e “Die in My Heart” sono dei buoni pezzi ma non fanno saltare sulla sedia. Interessanti invece le vibrazioni doom di “Voice Of The Outsider”, un inizio lento che si trasforma in un epico brano; questa capacità di introdurre molte influenze e diversi stili nelle loro produzioni, senza il solito copia/incolla, li rende una realtà compositiva tra le migliori degli ultimi anni. Livelli altissimi che restano immutati con “From The Urn” e “The Men Of Renown” sulla scia dell’epicità della precedente. Di nuovo un mescolarsi di violenza con “Sword Of Reason” ed una nuova accelerata, con Anders Persson che pesta come un disperato inserendo blast beat e, a mio parere, divertendosi un sacco a stupire chi ascolta. Si arriva in fondo a quello che è il punto più alto del disco, “The Passion Of Sophia” è più di un classico brano, è una lunga suite di undici minuti piena di dolore, forza, sofferenza, potenza: un brano che qualcuno definirebbe colorato, dove i Portrait mettono sul piatto tutta la loro bravura. Da brividi insomma.
Ed alla fine di tutto questo cosa fare se non dare un voto altissimo a questo disco? A partire dalla copertina per arrivare alla produzione, tutto è fatto bene e ci fa vedere un gruppo compatto e validissimo. Un appunto? Qualche brano di troppo, se si fossero fermati a nove/dieci l’intensità avrebbe giovato. Ma dobbiamo farne una colpa? Ne vogliamo ancora, ed ancora, ed ancora di dischi così. (8)


[Pol] Pusillanime chi scrive. Sì, perché rifugge dal difficile compito di esprimere un giudizio numerico su questo album.
Anzi, esageriamo, al bando la terza persona e parliamo direttamente in prima; è un grande sforzo per il sottoscritto, e non me ne vogliano tante altre penne, fra cui quelle di HMW, se dico che non abbiamo un bacino d’utenza così ampio e attento, soprattutto nell’A.D. 2024, tale da pensare che chi legge ci conosca e ci segua a tal punto… ma la circostanza lo richiede.

Un ritratto del padrone di casa di difficile inquadratura, quello che esce ancora una volta, la sesta per l’esattezza, dalla Svezia. Giochi sonori diversi, una consistenza diversa, quella luce oscura che aumenta d’intensità e si fa calda più ancora d’altre precedenti occasioni, nelle quali l’ormai rodato gruppo svedese prova a destreggiarsi, uscendone – memento: tutto è soggettivo – parzialmente vincente.

Sono passati mesi dalla sua uscita, e dopo svariati ascolti, The Host continua a rimanere “l’album che piace e non piace”, con una cadenza al limite della regolarità, quasi fosse una condizione valevole a giorni alterni.
Contiene tutti gli ingredienti cui ci hanno abituati i Portrait? Sì.
Suona come un disco dei Portrait? Sì.
Cosa non va? Se riuscissi a capirlo, probabilmente questo loro sesto sigillo non si troverebbe costantemente ad un bivio, ma semplicemente piacerebbe o non piacerebbe. Come un novello Catullo, odi et amo continua ad essere lo stato attuale del mio io interiore.

The Host è interamente basato su una storia di fantasia che si sviluppa nel diciassettesimo secolo, con un personaggio anonimo che decide di stringere un patto con l’Avversario (Saragat, N.d.R.) perché stanco delle ingiustizie ed ipocrisie del mondo, finendo per essere forzato ad arruolarsi nell’esercito per via di questa accusa.
Il tutto è sviluppato in un minutaggio corposo, troppo corposo, tanto che gli stessi autori hanno sentito il bisogno, in fase promozionale, di giustificare una mole di musica superiore al proprio standard (parliamo di quasi il doppio, essendo 74 minuti di musica), che allo stato attuale della scena è definibile come azzardo.
Mi sento di asserire che quanto sopra non vale esclusivamente per i più giovani, il cui deficit di attenzione è direttamente proporzionale ai fasti del debutto dei Methods Of Mayhem, ma anche per i grandi antichi che, lo ricordiamo ancora una volta, sono abituati a dischi epocali che faticano a raggiungere la quarantina di minuti (non fate finta che non sia la realtà, le eccezioni sono un numero davvero limitato).

Locuzione latina ad hoc anche in The Host, come piace ai Portrait, che citano parte della preghiera eucaristica (indubbiamente con intento di scherno) ad introduzione del disco. Sentire “Treachery”, “Dweller Of The Threshold” o il singolo “From The Urn” tranquillizza, con il Re Diamante che si intrufola per spaventarci con un suo mefistofelico bubu-settete, e sparsi fra gli altri brani i rimandi ai principali numi sono numerosi, a garantire l’integrità della proposta.

L’effigie della condizione attuale è emblema di come anche il più integerrimo fra i classicisti possa sentire l’impellente esigenza di un rinnovo, sempre nei canoni dettati dai propri precursori, ma cercando di non rimanere fossilizzato nella propria ordinaria zona di conforto. Grandi parole per dire che sentire soluzioni melodiche più calzanti per la vergine di ferro che per il fato misericordioso, udire una ballad, ma non solo, anche qualche sfuriata al limite del metal estremo, potrebbe far sgranare gli occhi a chi segue il gruppo dagli esordi, ma nel complesso c’è poco che stona, fatta eccezione per qualche passaggio che pare quasi forzato (non riesco a non ascoltare l’intro di “The Sacrament” senza percepire metriche e passaggi poco fluidi).

…e niente, scommettiamo che tanti sostenitori del gruppo, semmai dovessero incappare in questa panoramica, la prenderebbero per un supercàzzola prematurata?
Chiedo venia, ho sentito la necessità di esprimerlo – forse in modo un po’ particolare – anche a distanza di mesi dall’uscita ufficiale di The Host, non sia mai che in futuro dovessi nuovamente imbattermi in queste mie considerazioni, avendo preso una posizione definitiva. Come direbbe tal Alessandro, “ai posteri l’ardua sentenza”. (S.V.)

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