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Il (mio) 2025 a livello musicale inizia nel migliore dei modi con il nuovo album degli svedesi The Halo Effect, una sorta di super gruppo, per chi non li conoscesse, la cui peculiarità è quella di essere formato da musicisti che sono stati membri, chi prima o chi dopo, degli In Flames.
Alcuni vedono questo progetto come un qualcosa di prettamente commerciale, fatto a tavolino, e che punta sulla nostalgia dei vecchi metallari (guilty!). Io non perdo quel poco tempo libero che ho a disposizione e mi concentro sulla musica, e su quello che questa riesce a trasmettermi: sento un bel disco, suonato da musicisti validi che, avendo un passato comune, hanno deciso di portarlo avanti, riprendendo (in parte anche) quanto proposto precedentemente.
Penso sia proprio questa la discriminante: non parliamo di un gruppo di “ragazzini” che si ispirano ai mostri sacri del genere e propongono una loro interpretazione, o un loro “tributo”; qui ci troviamo davanti a chi la storia di quel genere l’ha fatta e l’ha vissuta e che quindi ha tutto il diritto di (ri)portarla avanti.
Il quintetto scandinavo ci tiene a sottolineare come il tutto sia nato con la mera intenzione di divertirsi. Penso che la dichiarazione sia in parte veritiera, ma, d’altro canto, allo stato attuale della situazione non sarebbe azzardato pensare che ora le cose siano un pochino diverse, anche alla luce del responso ottenuto dal loro primo lavoro. Insomma, la prova è andata bene, la volontà di divertirsi rimane certamente ma questo nuovo disco mi pare voglia esprimere qualcosa di più maturo e, in parte ricercato. Senza però snaturarsi.
Questo March Of The Unheard esce a meno di tre anni di distanza dal loro riuscitissimo disco di debutto Days Of The Lost, che già ai tempi avevo avuto il piacere di recensire.
Come nel caso del loro primo sforzo discografico, anche questo nuovo lavoro paga tributo alle sonorità tipiche del “Gothenburg sound” e più precisamente ai vecchi In Flames, senza però disdegnare la proposta di suoni decisamente se non più moderni, almeno più “freschi” (“What We Become”), addizionando all’equazione anche atmosfere tipiche dei (recenti) Dark Tranquillity, cosa a dire il vero non molto scioccante, vista la presenza di Mikael “Prezzemolino” Stanne alla voce. In questo caso penso a brani quali “Forever Astray” e “Between Directions”, caratterizzate da parti vocali pulite molto coinvolgenti e con la seconda presentando interessanti arrangiamenti “orchestrali”, senza perdere quella energia che corre potente per tutto il disco.
Gran parte delle canzoni (“Conspire To Decieve”, “A Death That Become Us” e “The Burning Point”, questa ultima con passaggi in sapore Soilwork) ricorda principalmente la produzione degli In Flames compresa fra The Jaster Race e Clayman (chi ascoltando “Detone” non ha pensato a “Pinball Map”?), senza disdegnare quei passaggi acustici – la intro di “Our Channel To The Darkness”, così come la conclusiva e strumentale “Coda” (una bella sorpresa, devo ammetterlo) e “This Curse of Silence” che funge da preludio alla travolgente title track – che hanno caratterizzato anche i primi lavori della band “madre”.
Mi domando: perché dovrebbe colpire una tale caratterizzazione della composizione, perché dovrebbe sembrare qualcosa di “scontato” o strano, in una formazione dove suona Jasper?
Quando ascoltiamo qualche gruppo storico (sia rock o metal), spesso non siamo soddisfatti di sentire quello che “ci aspettiamo”, quello che “vogliamo” sentire? Non torciamo forse il naso quando ci sono troppe sperimentazioni? Inoltre siamo onesti: ho amato alla follia gli In Flames degli anni ’90 ma negli ultimi 20 anni avevano perso il giusto cammino, anche se l’ultimo disco mi fa ben sperare per il futuro.
L’album è ben bilanciato e mantiene una notevole qualità per tutta la sua durata. Quello che mi ha particolarmente colpito è come ad ogni nuovo ascolto (e ce ne sono stati parecchi) le canzoni che colpivano maggiormente la mia attenzione non fossero le stesse. Questo è stato confermato anche successivamente, quando mi sono messo a prendere appunti relativamente ai vari brani, scrivendo (con penna e foglio, 100% old school!) le mie osservazioni, e non riuscendo a indicare, come invece faccio solitamente, la o le canzoni preferite.
Certo, la musica è influenzata dal contesto il cui viene sentita e non possiamo non tenerne conto, ma non mi capita spesso. Sicuramente ci sono brani che dal mio punto di vista trovano il giusto equilibrio fra le varie influenze, antiche e moderne, rappresentando al meglio l’attuale proposta musicale della band: si pensi alla title track così come a “Cruel Perception” (con quella melodia iniziale piacciona che sarà ben apprezzata in sede live), non per niente entrambi scelti come primi due singoli del disco.
Esecuzione di massimi livelli sulla quale se da un lato le melodie delle chitarre fanno da padrone, dall’altra la prestazione di Stanne dimostra ancora una volta (come se ce ne fosse bisogno?) dello stato di grazia che sta vivendo il cantante svedese. Impeccabile.
Il disco suona bene e si avvale di produzione top che a tratti mi è sembrata un pochino “fredda”, rispecchiando forse quelle ricerca di suoni moderni che un vecchio metallaro come il sottoscritto non sempre riesce ad apprezzare.
Il disco suona bene? Sì! Propone cose nuove? Non troppo! Questo ultimo dettaglio lo dobbiamo considerare un problema? Decisamente no!
March Of The Unheard per me è promosso a pieni voti.