Visualizzazioni post:226
Da trent’anni i Labÿrinth ci deliziano con il loro tecnicissimo power-progressive metal di stampo europeo con una carriera fatti di alti e bassi che non ha mai inficiato la loro straordinaria classe. Nel lontano 1998, sono riusciti con il loro famosissimo disco viola, Return To Heaven Denied a sfondare nel businness che conta uscendo dagli stretti e invidiosi confini nazionali. I membri fondatori di quel periodo Roberto Tiranti (Bloody Idol e The Last Crusader) al microfono, Olaf Thörsen (Shining Black e Vision Divine) e Andrea Cantarelli alla chitarra, hanno zittito i detrattori e sono riusciti dove tantissime band nostrane avevano fallito. Si, perché l’Italia è una strana Nazione in quanto, in generale, non apprezza e non favorisce i propri talenti che spesso devono trovare fortuna all’estero. Questo vale per ogni settore, compreso quello musicale dove poche sono quelle band che ottengono successo sia in patria e sia in territorio straniero. Il famoso sestetto toscano è poi completato da Oleg Smirnoff alla tastiera, Nik Mazzucconi (Edge Of Forever e Archon Angel) al basso e Mattia Peruzzi (Vision Divine) alla batteria che chiudono una eccezionale line up che a distanza da quattro anni dall’ottimo, Welcome To The Absurd Circus, ritorna con il decimo e straordinario disco in studio intitolato: In The Vanishing Echoes Of Goodbye. I nostri connazionali si fanno sempre attendere ma alla fine ne vale la pena perché il risultato finale è alquanto entusiasmante. I componenti del gruppo, impegnati per la maggior parte in altre formazioni, non trascurano mai la qualità del loro sound lavorando meticolosamente ad ogni aspetto della canzone. Basta ascoltare il singolo “The Right Side Of This World”, per rendersi conto della loro maestria e della loro tecnica strumentale. Il brano ha un inizio ottantiano alla Iron Maiden molto leggero e melodico prima di crescere in un mid-tempo di prog metal grazie alle roboanti e incisive sei corde elettriche di Olaf e Andrea supportati da una martellante sezione ritmica che vede in prima linea la batteria del possente Peruzzi. La tastiera offre delle sottili sfumature che accompagnano in sottofondo il refrain ultra-melodico e trascinante del pezzo guidato poi dalla stupenda timbrica vocale di Roberto.
Roberto Tiranti descrive così la nuova traccia, affermando: “La canzone racconta come in questi tempi, è sempre più difficile per noi capire quale e dove sia la parte giusta di questo mondo in cui stare e vivere in pace, mentre tutto si evolve in modo piuttosto illogico e feroce”.
Come non dargli torto. Viviamo tempi bui in un pianeta ormai senza umanità che non ha rispetto per nessuno tranne che per il “Dio denaro”, simbolo di tutti i poteri e di tutti i mali di questo pazzo mondo. Tutto si muove in direzione della ricchezza e i Labÿrinth, svincolati da formule e confini stilistici e musicali, sono liberi di esprimere i propri sentimenti e le proprie idee esprimendosi come meglio credono. Lo fanno subito già rendendo la loro musica più pesante nell’iniziale e aggressiva opener, “Welcome Twilight”, brano heavy e veloce infarcito da un ritornello orecchiabile, da epici cori e da una battente sezione ritmica. Roberto canta in modo cupo ma anche, in alcune parti, con una pazzesca estensione vocale che si interrompe solo per dare spazio ai galoppanti e prolungati assoli tastieristici di Oleg e chitarristici di Thörsen. Idem nella successiva e atmosferica, “Accept The Changes”, un altro power metal progressivo e melodico ma anche dal suono inquietante e con un pizzico di cupo symphonic metal, che alterna parti pesanti ad altre ambientali dove l’eccelso Tiranti cambia spesso tonalità vocale seguendo i vari cambi di tempo innescati dalle due velocissime chitarre elettriche. Alla riuscita della song aiutano: il preciso basso e la tellurica e infuocata batteria. Nel proseguo, la collera si placa per pochi minuti nella solenne armonia di “Out Of Place”, dove i ragazzi propongono quel loro tipico tocco melodico e malinconico guidato dalla pulita e determinata ugola di Tiranti. Dopo tre minuti dalla prima nota, il gruppo riprende a macinare armonie più dure con le arrembanti chitarre che sciorinano prolungati e delicati assoli. Il tutto è accompagnato da sottili e soavi tocchi di tastiera e dalle forti corde vocali del camaleontico frontman che cambia abilmente, durante il brano, atteggiamento e timbrica a seconda della struttura della composizione.
Con “At The Rainbow’s End”, il combo italico percorre ancora il puro power metal, sempre con velocità e melodia, allontanandosi leggermente dal genere progressive. Il risultato è interessante e rinfrescante perché i virtuosi giri di chitarra generano potenza e adrenalina sostenuta dalla solita e mitragliante sezione ritmica che sembra coprire il suono della keyboard, ma in realtà questa è solo un‘impressione perché ascoltando bene la traccia, il missaggio, il mastering e la produzione permettono di sentire nitidamente tutti gli strumenti. Non c’è solo rabbia e frustrazione nell’album ma anche forti emozioni e speranza come nel caso della power ballad, “The Healing”, caratterizzata da un ricco arazzo musicale innescato da una breve e sentimentale chitarra acustica poi sostituita dalla vibrante potenza delle due chitarre elettriche. Qui Roberto offre il meglio di sé interpretando divinamente un brano dalle due facce. La prima dolce ed ammaliante, la seconda più robusta ed efficace culminante con un melodioso e triste ritornello.
Lo stesso ritmo moderato e la stessa passione, che col crescere dei minuti diventa sempre più pesante, si ode nella seconda ballata dell’opera, ovvero in “To The Son I Never Had”. Questa è una dolce e suggestiva canzone composta da un mieloso e accattivante ritornello che avvicenda duri stacchi di chitarra ad altri più leggeri sotto i colpi dei magici tasti di Smirnoff e dei tambureggianti tocchi di Peruzzi. Qui si passa da un rock leggero e melodioso ad un caramelloso hard rock tenuto a bada dalle acutissime e melodiche corde vocali di un Tiranti in gran spolvero e dai bellissimi cori di sottofondo. Dopo questa tranquilla parentesi sonora gli italiani continuano a mettere in mostra il lato più pesante del loro repertorio con l’infuocata e distruttiva “Heading For Nowhere”, dalle chiare influenze thrash in cui le rigogliose tastiere dell’esperto Oleg riecheggiano e danno profondità sotto i funesti e galoppanti giri di chitarra elettrica dei veterani Andrea e Olaf. La solida e toccante, “Mass Distraction”, conferma tutto ciò che di buono si è sentito fino ad ora proponendo la collaudata formula sonora del gruppo fatta di potenza e raffinata melodia che intrecciate a vicenda sono l’inconfondibile marchio di fabbrica di una formazione ancora in piena salute creativa.
L’ultima “Inhuman Race” è la giusta conclusione di un disco sincero e fenomenale che offre una breve e leggera introduzione strumentale lanciando anche un messaggio geopolitico di protesta. Dopo due minuti, il pezzo parte in quarta alzando il ritmo e la velocità sonora con degli intermittenti riff di chitarra elettrica intrecciati i tocchi soavi e melodiosi di tastiera; a cui poi si aggiungono i colpi mortali e instancabili del basso e della batteria. Dopo una breve e tranquilla atmosfera corale una voce fuori campo (che si riferisce alla guerra in corso tra Ucraina e Russia) si unisce al suadente pianoforte di sottofondo lanciando così un messaggio politico. Da qui alla fine del brano è un rincorrersi di parti robuste fatte di incisivi e vorticosi giri di chitarra elettrica e momenti più zuccherati guidati dall’ autorevole e profonda voce dell’emozionante Tiranti. Che dire alla fine? La produzione di questo album è grandiosa grazie al grande lavoro in studio del bravissimo Simone Mularoni.
I Labÿrinth poi sono dei maestri e dei pionieri assoluti del genere che offrono ancora in In The Vanishing Echoes Of Goodbye una fantastica raccolta di canzoni, senza compromessi, destinate a durare nel tempo e che mette ancora in evidenza tutta la loro sincera e coraggiosa attitudine rock. Disco consigliatissimo!!