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Entro al Traffic per fotografare, ascoltare ed intervistare le Hand of Juno, convinto di avere l’attrezzo fotografico e tutte le domande giuste per rubargli l’anima. Poi sono uscito senza la mia.
Con calma, devo cercare di ripigliarmela da questi quattro delinquenti. Adesso li smonto un pezzo alla volta.
Solo piuttosto recentemente si sono allargati dal duo superstite, formato da Melissa alla voce (anzi, voci!) e Helly, addetta passionaria alla batteria e alla metallurgia pesante. Quindi mi aspetto debolezze, slegature. Che non arrivano mai, anzi. C’è Francesca (aka Fraa) che sulla sinistra del palco è forse quella più ascetica, concentrata sul suo mondo a corda ma solidissima e creativa, con un approccio fisico quasi sportivo. Una specie di nero e bellissimo colosso di Rodi, che da faro spara le luci di riferimento al gruppo per tenere i toni ruvidi a sufficienza. Perché (apro parentesi) queste “quattro mani” dichiarano apertamente di lasciarsi contaminare da lirica, prog, impro-jazz, techno ma perdio sempre sul metallo bisogna grattare! Il risultato delle loro registrazioni è così sempre in bilico tra il sublime/sensuale e l’orrido (che è diverso dall’orrendo).
Questa complessità continua sul palco perché al centro c’è, elegantissima, Melissa che tratta la sua performance con la precisione di una attrice. Infatti, al contrario dei tre strumentali che rivelano di seguire solo l’istinto bestiale nelle loro mosse, Melissa ha un approccio cinematografico, studia le sue pose e le abbina ai mille umori che riesce a creare con le sue plurime voci. È precisa, sa quello che vuole comunicare e lo fa con un seducente distacco, fino al momento del balzo e del ruggito della pantera. Amico che sei in prima fila, sei fritto… Prima di salire sul palco mi rivela che se non sa esprimere ciò che vuole con la voce, cerca la tecnica giusta e la impara. A Roma si direbbe “eccheccevò?”. Sentitevi “We’ve Built The Line” e poi “Polline”, capirete che non c’è nulla che questa pseudo-innocente ragazza non possa conquistare od uccidere con la voce. E lo ha fatto sul palco. Dice che è la sua iperattività a costringerla alla varietà e alla continua ricerca. Grazie, iperattività.
È l’ora di avvicinarsi alla sezione ritmica e bisogna essere cauti. Helly è minuta, cortese, estremamente professionale. Ma comanda attenzione dal primo istante. È lei la sorgente della maggior parte delle creazioni che iniziano da immagini, sequenze e visioni piene di fetish, scariche di elettroni, demoni… Le condivide poi con Melissa per tradurle in parole e evocare spiriti parlanti. Ha una tecnica di percussione affascinante, entra nella batteria con angoli improbabili, la domina con una danza tribale, poi si alza e potrebbe ribaltarla urlando. E invece torna a suonarla con una raffinata dinamica che, dietro al suo atteggiamento da rasoio affilato, rivela una altissima sensibilità.
Helly e Marco si intendono mostruosamente bene. Il simpaticissimo padovano si definisce un “estroflesso”, uno che non suona per sfogare repressioni ma per dare tutto ciò che ha da dare. E lo vediamo spesso trovare con il basso l’intesa perfetta con il battito Hellyano, un vero incontro/scontro di titani che si divertono immensamente guardandosi. Marco sul palco è un predatore con una fisicità elastica, non ruba mai la scena alle compagne ed anzi le esalta, mentre scandisce benissimo i tempi anche nella sequenza visiva. Ha un basso avvolgente ma che non perdona, puoi solo lasciarti scuotere la cassa toracica e ringraziare.
Altro segreto rivelato. Il luogo segreto. Per le HoJ è il van che li trasporta di palco in palco, una leggenda in linea con i racconti del fenomenale documentario di Dave Grohl “What Drives Us”. La band non ha un posto fisico stabile, uno studio proprio, la distanza tra i membri è notevole ma quei pochi metri cubi sono stati il collante che ha confermato l’attrazione istintiva all’interno del gruppo. E lo ha reso anche molto simpatico, collettivamente ed individualmente.
Il flusso della scaletta è piuttosto interessante. I primi due terzi contengono suoni molto più pop del previsto (relativamente!). La morbida “The End” o la epica “Pray Or Die” sono quasi da colonna sonora di James Bond. “The One” tutti la vorrebbero per attraversare la Padana sfrecciando in auto. “Not A Game” accende la voglia di dance e svela un raro intermezzo jazzy in italiano. Poi l’ingranaggio inizia a stridere, la macchina prende a consumare i cuori anche dei più rugginosi metalhead tra il pubblico. Si chiude infatti con la immensa “Hug My Death”, capolavoro noisy con suoni talmente ben disposti che puoi scegliere quello che più si abbina all’umore del momento, lasciandoti trascinare via dal resto. La eclettica title track “Psycothic Banana” la devo ancora comprendere fino in fondo, ma almeno mi avevano avvertito, e mi piacciono le sue svisate speedpunk.
Parliamo del pubblico. Ce ne era, ma forse un quarto di quello che le HoJ si sarebbero meritato. Nonostante un invito di Melissa al “famolo strano”, era attento, attentissimo, educatissimo ma avrei (e le HoJ forse avrebbero) sperato in un rilascio più istintivo e viscerale. Poco male, gli applausi sono usciti con molta sincerità.
Unica penalizzazione derivata da un suono in sala un po’ secco. E se potessi esprimere un desiderio (ok HoJ, ve lo esprimo davvero!) adorerei sentire l’elettronica suonata sul palco e tante backing vocals. Questi accorgimenti restituirebbero appieno la profondità e la maturità del vostro suono, mai scontato e rapace di anime.
A proposito! E la mia? Ommerda, è partita nel van!
SCALETTA: Pray Or Die / We’ve Built The Line / Not A Game / Destroy The Line / Here With You (inedito) / The One / Right Now / The End / Psychotic Banana / Polline / Hug My Death
FORMAZIONE: Elisa “Helly” Montin, compositrice e batterista / Melissa Bruschi, compositrice e cantante / Francesca Mancini, chitarra / Marco Valerio, basso.
Recensione e foto di Matteo Nasi @ForAFewShotsMore