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Avete presente quando i pianeti si allineano e sono perfettamente li, uno in fila all’altro?
Beh queste cose accadono (ovviamente) una volta ogni milione o miliardo di anni. Considerando il “tempo” spaziale che è infintamente più dilatato di quanto noi piccoli esseri umani possiamo concepire.
Beh, nell’ormai lontano (ahinoi) 1998 ci fu uno di questi allineamenti di pianeti. O di chitarre, voci, batterie…
Alzi la mano chi non conosce un certo James Rivera e i suoi Helstar.
Nel caso l’abbiate alzata, siete tra quelli che devono (di corsa) andarsi a riprendere un bel po’ di dischetti usciti nell’ultimo ventennio del secolo scorso.
Recuperare capolavori come Remnants of War / A Distant Thunder / Nosferatu è il minimo che un metallaro che ama la buona musica debba fare.
Come dicevamo, nel 1998, una sconosciuta band dal nome New Eden reclutò James Rivera per sostituire il loro cantante dimissionario e, nel corso del processo compositivo, praticamente esplose per divergenze varie tra i membri stessi e la casa discografica. Il chitarrista originario (tal Horacio Colmenares) si separa, portando con sé il nome e lasciando quindi sezione ritmica e chitarrista con una manciata di riff e un gran cantante da sfruttare.
Entra quindi in gioco Perry Grayson, altro sconosciuto chitarrista proveniente da formazioni non certo sulla cresta dell’onda, e battezzano il gruppo con Destiny’s End.
Le cose con Perry funzionano alla grande e con un James Rivera a pieno servizio (almeno a quanto dichiarato in una vecchissima intervista), c’erano quindi i presupposti per un buon lavoro e, sentito qualche demo, sia Metal Blade che mamma Nuclear Blast, offrirono un contratto ai nostri. Che scelsero la prima per i buoni trascorsi di James.
Arriviamo quindi alla musica.
Ebbene, questo disco è una bomba. Punto.
A capo.
L’attacco della prima traccia, Rebirth è semplicemente incredibile. Tutto il compendio di come un disco speed power metal dovrebbe suonare.
Riff a mille all’ora, melodia, armonie, un totale abuso di doppia cassa (che sarà un leitmotiv di tutto il lavoro), una voce grandiosa, cori, assoli. Tutto totalmente perfetto.
E francamente, dovrebbe bastarvi questa canzone per correre inserire questo lavoro nel novero di quei dischi che nessuno può non ascoltare. Varrebbe il prezzo del biglietto.
Invece c’è anche la traccia che da il titolo a questo lavoro subito dopo, che parte lanciata e poi propone un riff sul ritornello che è qualcosa di quasi inaspettato, un po’ più riflessivo e che trascina con naturalezza al tempo dispari che si apre per la parte centrale e dell’assolo.
Altro pietra miliare del disco, dopo la pur ottima To Be Immortal, è The Fortress Unvanquishable, tra l’altro uno dei pezzi proposti con il contributo del nuovo arrivato Grayson, rappresenta un altro di quei pezzi che, semplicemente, non possono che essere apprezzati.
Niente di spigoloso qui, altro abuso di doppia cassa, per un ritornello che vi farà cantare a squarciagola, un pezzo compatto e veloce, ma che contiene tutto quello che la massima espressione del genere può portare.
Il disco scorre incredibilmente bene, passando ancora per pezzi lanciati come Sinister Deity o Unsolved World, per arrivare dare un attimo di respiro con Under Destruction’s Thumb. Mid tempo che spezza un attimo la tensione e consente di prendere una piccola pausa, per riaccelerare poi con la più prog del lotto Clutching At Straws e la melodicissima e un po’ più melancolica Where Do We Go?, dove qualche sentore di Iron Maiden fa capolino.
Arriviamo quindi alla conclusione con la bellissima The Obscure, che inizia con un sinistro e (appunto) oscuro e melodico arpeggio, subito condito dalle voci (quasi sempre raddoppiate) di James Rivera, per poi riportarci subito nel terreno che fino ad ora abbiamo calpestato, cioè power metal veloce e compatto. E ancora si alternano arpeggio e ritornello veloce, sempre con naturali “transizioni” di sezione.
Ecco, la naturalezza e lo scorrere perfetto tra i passaggi da una sezione e l’altra sono una delle caratteristiche migliori di questo lavoro.
Penso sia difficile trovare dischi che suonino così semplici eppure così pieni di sfaccettature ed elementi che compongono ogni canzone, tra fill di batteria, doppie chitarre, doppie (o triple) voci costanti, giri di basso, tutto è studiato e si incastra perfettamente, dando una profondità pazzesca, senza stancare chi ascolta.
Unico appunto a questo disco è il lavoro su suoni e mixing, nonostante l’impegno di due nomi come Bill Metoyer e lo stesso Brian Slagel.
Personalmente trovo che il suono, genericamente, sia un po’ pastoso e in alcuni punti non consente apprezzare del tutto alcuni passaggi. Sia di chitarra che degli altri strumenti. Anche se mi sento di assicurarvi che non è certo un elemento così fastidioso, però già nel successivo disco avrebbero raddrizzato il tiro
L’atmosfera creata in questi pezzi è fantastica (già apprezzabile dalla copertina) ed è anche grazie a quanto di personale i nostri ci hanno messo, avendo un po’ tutti contribuito alla stesura dei testi che trattano di individualismo e immortalità. Temi più grandi di noi e che aprono sempre le porte a domande gigantesche e senza risposta.
Sempre in quell’intervista dicevano, per esempio, che Rebirth tratta di un uomo che scopre che dopo la morte c’è il totale nulla e a cui viene data una seconda possibilità, rinascendo, consentendogli di capire quanto si debba apprezzare la vita e tutto quello che ci accade, perché la nostra vita è l’unica cosa che mai conosceremo.
Nella fine degli anni ’90, in cui il metal americano stava attraversando un periodo non certo florido, soverchiato dalla potenza dei movimenti grunge e industrial che avevano sconquassato la scena musicale di quel periodo, i Destiny’s End se ne uscirono con un capolavoro che all’epoca fece scalpore. Il mix tra Maiden, Priest, Mercyful Fate, Fates Warning e tutto il metal degli anni ’80 da cui questi signori hanno attinto a piene mani, era perfetto per quel momento storico.
Un disco però per il quale il gruppo raccolse probabilmente meno di quanto avrebbe dovuto. Un lavoro come ancora oggi non ne escono, frutto di un allineamento di pianeti, di ispirazione, ottimi strumentisti e probabilmente un gruppo di amici affiatato e che aveva trovato un’alchimia che solo in alcuni momenti della storia si riesce a formare.
Pubblicarono un secondo disco, Transition, 3 anni dopo questo, che era un buonissimo lavoro, ma che, purtroppo, non avrebbe raggiunto il picco di questa opera prima.
Cosa che, probabilmente, portò allo scioglimento del gruppo già nell’anno della pubblicazione, il 2001.
Recuperatelo, non rimarrete delusi.