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Recensione scritta da Fabio Perf.
Prima di iniziare la recensione vera e propria di questo “The Passion Of Dionysus”, ultimo album di inediti firmato Virgin Steele, vorrei chiarire due punti fondamentali che magari a qualcuno potrebbero sembrare scontati ma che comunque è bene ribadire, soprattutto per l’analisi di questo lavoro.
I Virgin Steele sono David DeFeis: lo sappiamo tutti che, praticamente da sempre, il buon David è la mente, padre e padrone, di questo progetto musicale; ma mai come in questi ultimi anni, con questi ultimi dischi, quella che poteva essere una band formata da musicisti, ha preso sempre più le sembianze di un progetto solista.
David DeFeis è invecchiato: non troppo bene direi… con dei limiti evidenti a livello di prestazioni vocali.
Come possiamo leggere dalla biografia in nostro possesso, i Virgin Steele attuali sono praticamente formati da DeFeis, che suona tutti gli strumenti ad eccezione della chitarra, ad opera del fedele compagno Edward Pursino, coadiuvato per l’occasione da Josh Block (alla sette corde).
Partiamo da dati per lo meno oggettivi: la produzione, praticamente ad opera dello stesso DeFeis, è molto lontana da quello che uno potrebbe aspettarsi da un disco metal. La voce e le tastiere sono totalmente in primo piano, con le chitarre relegate sullo sfondo, sovrastate anche dalle parti orchestrali (ovviamente sempre ad opera delle tastiere, non certo di un’orchestra vera). La batteria è fintissima, risultando spesso fastidiosa. Insomma, sembrerebbe un suono quasi più adatto ad un disco pop che metal.
La prestazione di DeFeis: come detto in apertura, l’avanzare degli anni non fa sconti, e il Nostro non è più quello degli anni 80/90 e, per fortuna, sembra essersene reso conto; infatti se la cava ancora discretamente sui toni medi e, rispetto al precedente “Nocturnes Of Hellfire & Damnation”, la smette di “miagolare” con quei falsetti effettati al limite del ridicolo, anche se non può trattenersi dal riempire quasi qualsiasi passaggio con i suoi “ruggiti” e “sbuffi”, onnipresenti in tutto il disco. Qualche vocalizzo ad “effetto” comunque non se lo risparmia anche su questo lavoro.
Il concept: come da buona tradizione, anche questa volta i Virgin Steele attingono a piene mani dalla mitologia greca, narrando le gesta di rivalsa di Dioniso comparate però ad un concetto di dualità riportato alla società odierna.
Veniamo ora alle composizioni di “The Passion Of Dionysus”, che sono poi la cosa che ci interessa di più. Il disco è composto da dieci tracce, tutte piuttosto lunghe e, a parte un paio di episodi, sono tutte sopra i sette minuti, con una durata complessiva che sfiora gli ottanta minuti. Un bel mattoncino, quindi… Il problema non è tanto la lunghezza dei pezzi ma il fatto che non ci sia respiro, in primis a causa della voce di DeFeis che va a riempire quasi ogni secondo del disco: parti cantante, cori, “versi”, narrati…presenti sempre e comunque (persino durante i brevi solo di chitarra). Orpelli, orchestrazioni, tastiere a volontà, finiscono per uccidere il resto.
In “The Passion Of Dionysus” non ho trovato un coro che ti rimanga in testa, una melodia indovinata. Benché non vi sia nulla di cacofonico, le uniche cose che ti restano sono la voce di DeFeis, mugolii annessi, e le sue tastiere. Persino col brano più corto del disco (meno di 3 minuti), “Black Earth & Blood”, che vorrebbe essere una specie di up-tempo (rovinato da una batteria fastidiosissima!), si fa fatica ad arrivare alla fine, con la voce che ti penetra nel cervello come un chiodo e nemmeno lo straccio di un assolo di chitarra. Il resto delle composizioni, tutte quante mid-tempo o lenti, non brilla per freschezza né dinamicità, nonostante la durata e i cambi di umore quasi obbligati. Si avanza faticosamente, tra tastiere e chitarre acustiche, con la voce che proprio non vuole dare tregua alcuna!
Dobbiamo aspettare il brano di chiusura, “I Will Fear No Man For I Am A God”, per trovare finalmente un solo quantomeno decente, nonostante DeFeis faccia di tutto per rovinarlo coi suoi vocalizzi.
Anche i brani che sembrano avere più verve, come “To Bind & Kill A God” o il singolo “Spiritual Warfare”, vengono poi appiattiti dall’eccessiva lunghezza e da melodie vocali poco efficaci, distanti anni luce dai cori vincenti e sognanti che ci aveva regalato la band in passato.
Dopo ripetuti (e faticosi) ascolti, analizzando in modo più lucido il disco, al netto delle lungaggini, della produzione di plastica, di scelte vocali spesso non indovinate (ovviamente questi non sono aspetti secondari), qualche idea interessante la si trova e cresce il rammarico per un musicista che probabilmente avrebbe ancora qualcosa di buono da dire (potrei fare un parallelismo con l’attuale Malmsteen).
Anche per la lunga (oltre dodici minuti) “The Ritual Of Descent” la solfa non cambia, col cantante americano che ci stordisce con dei lunghi vocalizzi – “aiutati” dalla tecnologia – e con il brano che si sviluppa in modo lento e ossessivo…ad ogni minimo stacco strumentale ecco che ripartono versi, “ruggiti”, acuti senza senso…un’agonia per le nostre orecchie!
Purtroppo si sente pesantemente l’assenza di idee vincenti, non di meno la mancanza di una vera band e di un suono genuino. La registrazione fai-da-te non regge il confronto con le produzioni attuali di band underground, figuriamoci coi classici degli anni 80/90! “The Passion Of Dionysus” non arriva alla sufficienza, ci sono troppe cose che non vanno e che non si incastrano. Un disco praticamente riservato solo ai completisti e ai fan più accaniti dei Virgin Steele.
A questo punto meglio le Teste di Cassios.
Le Teste di Cassios sono meglio di qualunque band!