Visualizzazioni post:771
Underground duro e puro, sudore e sofferenza, cadute e rialzate, vittorie e sconfitte, ma soprattutto soddisfazioni e sacrifici. Quando ascolto un album degli Infection Code sento tutto questo. Respiro a pieni polmoni le loro note. Si, avete letto bene, le respiro, perché quello che esce dal lettore non è solo musica, sono note che si mescolano con l’aria e ti entrano dentro. Ti fanno sentire le loro emozioni fin dentro le ossa.
Questi “ragazzi” sono nel giro da venticinque anni e Culto è il loro decimo album. Esperienza ne hanno da vendere, come la passione e la professionalità. Due pregi che difficilmente riesci a riscontrate all’interno di una stessa band. Da loro trovi tutto questo e di più. Io adoro l’underground e quando trovo gruppi come questo che, nonostante i tanti anni passati a doversi conquistare con mille fatiche ogni singolo centimetro verso l’obiettivo di un disco, di un concerto o quant’altro, sono ancora qui a volerci trasmettere qualcosa che sentono dentro, trovo la cosa semplicemente meravigliosa. E ogni volta che una band mi trasmette tutto questo, io mi emoziono.
Quando è uscito il loro precedente lavoro, Sulphur, l’ho trovato un gran bell’album che ho posizionato nella mia top dieci del 2023. A scanso di equivoci, non è che mi siano piaciuti tutti i dischi degli Infection Code, c’è stata una loro fase in passato che… ‘nsomma. Di un album possiamo dire che non sia rientrato nelle mie preferenze da subito e dopo un paio di ascolti ho deciso di averne abbastanza. Di un altro, invece, diciamo che rientra nella categoria meh… ma non vi dirò mai quali album essi siano (l’ultima frase è da leggere con voce grave da doppiatore di film storici o religiosi anni cinquanta/sessanta).
Culto aveva l’ingrato compito di eguagliare il precedente album, compito non facile e che personalmente ritenevo un’impresa ardua per il livello qualitativo raggiunto. Ed infatti avevo ragione, perché il livello è stato superato! Merito della scrittura, dell’esecuzione e, innegabilmente, dell’ottima produzione di Tommy Talamanca (Nadir Music), che in questo caso ha fatto uno dei suoi soliti eccellenti lavori.
La copertina, che mi ricorda uno stile orientato verso il doom, è opera di Simone di STRX Studios. Ovviamente non poteva che essere raffigurata una croce a rappresentazione di quanto descritto nel titolo dell’album, il cui significato è ispirato al culto religioso di Lovecraft che, come spiegato dal cantante, associandolo al fatto che militare nell’underground metal sia come venerare un culto (oltre ad essere un’attitudine, questa è una missione!), mi fa piacere questo titolo e anche parecchio.
Il paroliere è come sempre Gabriele, che ha scritto tutti i testi tranne quello del primo pezzo scritto da Chris e “Dead Brain’s Oblivion”, scritto da entrambi. Fondamentalmente i testi sono ispirati a racconti di diversi autori che attraverso varie riflessioni da parte dello stesso cantante li fa diventare suoi per poi adattarli alla vita di di tutti i giorni, in cui l’essere umano vive tra mille problemi e mille domande che si pone.
Breve intro di chitarra e poi la voce marcia di Gabriele inizia la sua liturgia. “Nail In The Wall” è il primo singolo, ed è così che deve iniziare un album di questo tipo: veloce, essenziale e diretto. Con la partecipazione di Trevor Nadir, ho detto tutto.
Inizio piacione e doppio cambio di tempo più pesante per “Great Old Ones”, con momenti quasi asfissianti nel cantato e sciabolate di chitarra con annesso ulteriore cambio di tempo nel finale a chiudere quello che per me è il pezzo migliore. Il testo mi ricorda qualcosa o qualcuno. Parla di questa compagnia di grandi antichi che si riunisce e si prende gioco dell’umanità. Sì, decisamente mi ricorda qualcosa e qualcuno…
“Cursed Breed”, con il testo ispirato a “La maschera di Innsmouth” sempre di Lovecraft, inizia con la batteria di Riky per continuare a pestare con un ritmo martellante e la voce in versione “malefica”, per un pezzo che è caratterizzato da un alone misto di malignità e cattiveria.
Pezzo atipico con la chitarra acustica di Chris che ci porta in un ambiente misterioso e la voce di Gabriele che questa volta sembra narrarci una storia a lume di candela in una stanza buia. Ma una triste e malinconica storia con un finale sicuramente non da fiaba. Interessante il contrasto tra l’allegria della musica e la sofferenza del cantato. Una sola parola per questa “Dead Brain’s Oblivion”, inquietante.
Riff alienante e ritmica bella robusta per “Veleno”, testo ispirato a “Il Terrore” di Machen, con Andrea “quadrato” nel suo accompagnamento e Riky… beh, il solito Riky. Un batterista che è semplicemente una garanzia di tecnica e fantasia.
Variare, variare e ancora variare all’interno delle stesse canzoni. Ogni pezzo – per inciso hanno più o meno tutti la stessa durata – ha parecchie variazioni che danno alla struttura stessa del brano quel tocco di freschezza che solitamente manca in questo genere. E soprattutto non rischiano mai di cadere nell’ovvio e nella ripetitività.
L’ultima per cui voglio spendere due parole è “Worship Remains Underground”. Per le altre andate, e di corsa, ad ascoltarvi il disco. Un inizio quasi claustrofobico con un graduale cambiamento più armonioso a metà per concludere questo viaggio di cinquanta minuti attraverso quello che posso affermare un lavoro che questa volta sarà veramente dura, durissima da eguagliare. E qui non scherzo più, Gabriele, Riky, Chris e Andrea, Infection Code, avete alzato l’asticella molto in alto. Complimenti e vedete di smentirmi anche con il prossimo.
Io non so per quanto tempo ancora brucerà così intensamente la fiamma metallica che arde dentro questi quattro musicisti, ma mi auguro che il responso positivo che questo album avrà, perché non può essere altrimenti, la mantenga bella viva. C’è bisogno di gente che continui a realizzare altre gemme preziose come queste. A far scattare l’orgoglio italico verso tanti, troppi album stranieri spacciati per capolavori solo perché provenienti dall’estero. Credo che noi metallari italiani siamo purtroppo i più grandi esterofili del mondo, anzi ne sono convinto.
Fino ad ora ho praticamente parlato solo bene sia del disco che degli Infection Code. Per non sembrare troppo poco al di sopra delle parti, allora chiuderò dicendo loro che fanno bene a puntare tutto sulla musica e niente sull’immagine. E poi tagliatevi tutta quella peluria che avete in faccia, barboni (sì, sì, lo so, senti chi parla).