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Recensione scritta da Alessio Aondio.
Piccola premessa, per me, ospite di questa webzine, che naturalmente ringrazio per la fiducia, scrivere proprio dei Sacred Steel non è cosa semplice, dovendo teoricamente essere imparziale e critico e, non essendolo oggettivamente mai stato con la band di Ludwigsburg la quale, non lo nego, ha un posto speciale nel mio cuore.
Ciò detto, un po’ di doverosa e noiosa biografia; i Nostri con Ritual Supremacy riallacciano il discorso interrotto ben nove anni or sono con Heavy Metal Sacrifice, cambiano etichetta ed addirittura due membri, il chitarrista Jens Sonnenberg, in formazione dal 1997 ed il bassista Kai Schindelar, dal 2002.
I sostituti non sono affatto degli sprovveduti neofiti, come testimoniano le uscite live della nuova lineup, rivitalizzata da un’iniezione di Acciaio: Jörn Langenfeld, ascia dei techno deathsters Subconscious e Toni Ieva, per tre lustri bassista dei power metallers Brainstorm.
Tornando a bomba al fresco d’uscita Ritual Supremacy, aperto dalla spezza ossa title track, autentica dichiarazione d’amore verso un certo tipo di sonorità e continuando con “Leather, Spikes & Chains”, inno di sicura presa in sede live, i Sacred Steel confermano, come se ce ne fosse bisogno, l’impeccabile stato di forma che il quintetto sta vivendo.
Proseguendo con l’ascolto, notiamo come gli svevi abbiano anche tirato a lucido la loro vena melodica, pur mantenendo il trademark senza compromessi del gruppo; infatti, il pacchetto centrale di canzoni, ovvero da “The Watcher Infernal” a “Bedlam Eternal”, risente positivamente del lavoro trentennale svolto dal cantante Gerrit con i suoi Dawn Of Winter, vera cult band in ambito Doom, oltre a mettere in mostra tutto il gusto musicale del poliedrico e dotato Jonas Khalil alla sei corde.
Non temano i fan di vecchia data, è impossibile tenere a freno la voglia di velocità dei Sacred Steel e del suo batterista Matze Straub, da sempre il motore di questa berlina teutonica, tirata a lucido per il come back in questione.
Ecco quindi che “Demon Witch Possession” deflagra in tutta la sua cattiveria, salvo poi, di nuovo, tirare il fiato con “Covenant Of Grace”, la più strutturata del lotto, con una prova magistrale di un Gerrit Mutz magnetico.
È il turno di “Omen Rider” che, dal titolo, sembra un tributo alla band di Kenny Powell, già omaggiata in passato con la cover di “Battle Cry”, salvo poi aprirsi all’ennesimo, azzeccatissimo refrain melodico.
I ragazzi chiudono le ostilità con “Let The Blackness Come To Me”, dall’andamento arpeggiato di Jonas, con un Gerrit quasi sognante, regalandoci anche questo, inedito se vogliamo, aspetto del sound.
Concludo rimarcando che i nove anni trascorsi per avere un nuovo disco sono valsi l’attesa, trovando i cinque del Baden-Württemberg in forma smagliante anche in studio; scontato invece suggerirvi di dare loro una chance dal vivo, qualora non l’aveste mai fatto, in occasione della loro calata sulla Penisola il prossimo novembre.
Time to rise – to fight and never back down.