FOLWARK – Francesco Marcolini – Tommaso Faraci


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Quest’anno è uscito il secondo album dei «Folwark», band con base in Umbria, composta da Francesco Marcolini e Tommaso Faraci. Il nuovo album, da noi recensito il mese scorso, All Shadows Stretched, propone un rock sperimentale fuori da ogni canone e ha destato la mia attenzione per la qualità sonora e la ricchezza compositiva. Con molta curiosità e soddisfazione, abbiamo fatto una prolifica chiacchierata…

Allora, prima di tutto le presentazioni. «Folwark» è un’idea di rock psichedelico traguarda i 10 anni, siete soltanto in 2…spiegateci un po’: “chi siete e dove andate”?

Folwark è un progetto che ha iniziato a prendere forma nel 2014. Sin dall’inizio tutto ruota principalmente intorno alla dualità chitarra/batteria, anche se ad oggi si sono aggiunti svariati amplificatori, un synth, un theremin e entrambe le nostre voci. La sperimentazione è probabilmente il motore che ci alimenta e che ci mostra di volta in volta confini più ampi e nuove possibilità di creazione.

Descrivete la vostra terra d’origine, l’Umbria, come la terra dove santi e terremoti coesistono. La trovo molto azzeccata! La prima cosa che mi ha colpito della vostra musica è il suo misticismo: che connessioni ha con il suo luogo di nascita e che cosa esprime «All shadows stretched»?

L’Umbria è una terra molto antica, in sé conserva l’energia di un tempo senza fine ed è forse da qui che inizia il nostro lavoro di ricerca, provando a trasformare queste vibrazioni in musica. L’album parla di tempi bui, tempi che dal passato riemergono, quando le ombre si allungano prima del ritorno o dopo il passaggio della luce.

Il disco attraversa atmosfere oppressive e inquietanti, in una modalità abbastanza anarchica. Gli strumenti sono i veri padroni, poi sopraggiunge la voce: come componete le vostre canzoni ed in questo contesto che valore ha l’utilizzo del theremin?

Questi brani sono nati e cresciuti insieme a noi in un periodo di grande trasformazione e crediamo che riescano a testimoniare vari passaggi di questo processo: l’oscurità, l’abbandono, la rabbia, che diventano determinazione, epifania e liberazione. Le nostre canzoni nascono quasi totalmente da improvvisazioni che poi elaboriamo per delineare strumenti, tempo e parti. Il theremin è uno strumento nobile, dal fascino e dal suono inimitabili, cerchiamo di utilizzarlo consapevolmente per dare un colore alla profondità (come in alto così in basso).

Questo è il vostro secondo lavoro in studio, sei anni dopo il primo LP, «VIMANA». Cosa è cambiato in voi in questi 6 anni che più di tutto vi ha condizionato musicalmente?

In questi sei anni sono cambiate diverse cose in noi, o meglio, si sono evolute, siamo sicuramente più vicini ad un suono che ci identifica. Rispetto a VIMANA abbiamo acquisito più coscienza delle nostre capacità e della nostra volontà sia in ambito musicale che nel quotidiano. Non a caso si sono aggiunte le voci e abbiamo iniziato a scrivere testi.

Quali sono gli artisti che vi influenzano maggiormente o a cui sentite di ispirarvi?

Le contaminazioni sono molteplici e ci sono artisti che più di altri ti segnano, come Yob, The God Machine,  Pontiak e Heilung ma anche Tool, Earth e Amenra.

Ho letto che per produrre l’album avete suonato in un sito minerario abbandonato…molto interessante: spiegateci le ragioni e l’effetto che avete ottenuto.

Si, il sito minerario in questione è anche il luogo che abbiamo la fortuna di avere come sala prove. È un vecchio giacimento di lignite, isolato dalla città, le cui strutture sono state in parte riconvertite in stalle o in sale prove. La cosa più bella, oltre a condividere lo spazio con svariati animali e la natura che ci circondano, è la possibilità di potervi accedere in qualsiasi momento, sia di notte che di giorno, ed avere un posto potenzialmente sempre attivo. Anche durante le registrazioni del disco abbiamo potuto dedicare giornate intere alle varie sessioni senza il limite del tempo che normalmente si ha in studio.

Lorenzo Stecconi (collaboratore tra gli altri di «Amenra») ha registrato, mixato e masterizzato l’album. Com’è stato lavorare con lui e come lo avete scelto?

Lorenzo è stato impareggiabile, molto preciso nelle riprese e accurato nel mix e nella post-produzione. Lavorare con lui è stato un privilegio quasi quanto averlo conosciuto. Ci siamo trovati tutti e tre sulla stessa onda, condividendo idee, suoni e cene a tarda notte. Lo abbiamo scelto perché pensavamo fosse la persona giusta per riuscire a rendere efficaci le 6 tracce su disco e a distanza di tempo possiamo dire che avevamo ragione.

Non deve essere assolutamente semplice portare questa musica live – specialmente in 2 – negli ambienti underground, sia per motivi tecnici che logistici. Come vi approcciate ad un evento dal vivo e su cosa puntate per esprimere il massimo della performance?

Si, il nostro equipaggiamento non è molto pratico da muovere o settare nel contesto del live, o almeno ha bisogno di diverse accortezze per poter funzionare al meglio. Per essere in due utilizziamo parecchi strumenti e, abbiamo bisogno di una backline adeguata ma finora diciamo che siamo riusciti ad arrangiarci piuttosto bene. Tuttavia la cosa più importante è lo stato mentale che si porta nel live ed in questo entrano in gioco anche tutte le persone che contribuiscono alla resa della serata, come i tecnici, lo staff ed il pubblico. Quando si è tutti coesi a raggiungere lo stesso obiettivo allora il più è fatto e possiamo concentrarci per esprimere al meglio la nostra musica.

Se dovessi scegliere una canzone fra tutte, scelgo «Amygdala»: me la potete raccontare?

Tradotto in italiano, l’amigdala indica la parte del cervello che permette agli esseri umani di percepire la paura, ma è anche la forma che l’uomo primitivo dava ad un utensile di pietra per scavare, tagliere e difendersi. La nostra identità ci definisce, ma spesso, limita come una barriera ciò che possiamo o non possiamo fare e cosa possiamo o non possiamo essere. Ci ritroviamo come circondati da un velo opaco ogni volta che cerchiamo di allontanarci da quello che abbiamo imparato a riconoscere come il nostro “io”. Amygdala è un invito ad andare in profondità e a trovare modi per trasformare queste paure in conoscenza.

Infine…ogni album lascia dietro di sé tante ore di impegno e di divertimento, speranze ed anche piccoli o grandi sacrifici. C’è qualcuno che volete ringraziare in questo viaggio e per quale motivo?

È stato un lungo viaggio che vogliamo proseguire suonando i pezzi dal vivo. Un grazie va a tutte quelle persone che ci hanno sostenuto, che hanno atteso e che in un modo o nell’altro fanno o hanno fatto parte di questo lavoro.

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