PARADISE LOST – Ascension

Titolo: Ascension
Autore: Paradise Lost
Nazione: Inghilterra
Genere: Death Doom
Anno: 2025
Etichetta: Nuclear Blast

Formazione:

Steve Edmondson – Basso
Greg Mackintosh – Chitarra Solista / Tastiere
Aaron Aedy – Chitarra
Nick Holmes – Voce
Jeff Singer – Batteria


Tracce:

01. Serpent Of The Cross
02. Tyrants Serenade
03. Salvation
04. Silence Like The Grave
05. Lay A Wreath Upon The World
06. Diluvium
07. Savage Days
08. Sirens
09. Deceivers
10. The Precipice
11. This Stark Town (traccia bonus ed. limitata)
12. A Life Unknown (traccia bonus ed. limitata)


Voto del redattore HMW: 6,5/10

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Arrivare con qualche giorno di ritardo rispetto a tutti gli altri, ha il vantaggio di darti la possibilità di prendere quel distacco e quel momento in più per sedimentare ciò che hai assimilato e tutto quello che hai letto in giro e dare un’opinione diversa. Visto che, in fondo, qui vi sto dando soltanto la mia opinione.

Ebbene, l’uscita di un disco dei Paradise Lost (il diciassettesimo all’anagrafe), magari non sarà un evento come l’uscita di uno dei Metallica o dei Maiden, ma nell’ambito del nostro genere preferito, questi signori inglesi sono un’istituzione. Ancor più nello specifico del death doom che i nostri hanno contribuito a creare e del quale, pragmaticamente, mi sento di dire, siano (quasi) gli unici rimasti a portare la croce in un certo modo.

Si perché Greg e soci sono stati capaci di essere precursori, innovatori, motori di cambiamento, sperimentatori e di nuovo portatori del verbo.
Questa è la parabola della loro carriera, in cui hanno incastonato grandi lavori, grandissimi capolavori, alcuni scivoloni, ma sempre mantenendo un livello qualitativo che non può che essere ritenuto ben più che elevato. E, anche quando sembravano aver scavallato la cima del non ritorno e di aver trovato una dimensione che col metal nulla aveva a che fare, ho sempre apprezzato e ammirato l’integrità e la ferma volontà nel sostenere e alimentare le proprie scelte.
Penso infatti che la loro “fase elettronica” fosse una sorta di passaggio necessario per avere quell’evoluzione che ha poi consentito di evolversi nella forma che sono stati successivamente: un gruppo più maturo e completo.

Senza dilungarsi oltre, Ascension arriva cinque anni dopo Obsidian che, a parere del sottoscritto, era un disco fantastico, perché riusciva a coniugare i Paradise Lost in tutte le sue forme e nel modo più coeso possibile e con un risultato eccellente. Quel disco aveva i riff, aveva le melodie, le canzoni, le soluzioni di arrangiamento, le melodie, aveva i pezzi coi galloni per diventare “classici” in sede live. In sostanza era un disco estremamente ispirato, ma anche realizzato con la giusta dose di maniera e di esperienza che si confà ad una band attiva da decenni e con una formazione stabile e unita.

Questa premessa serve per introdurre l’argomento principe nel descrivere Ascension: è un disco commerciale e un po’ meno sentito di quanto mi sarei aspettato.

Sin dal primo ascolto distratto i Nostri hanno il vantaggio di essere riconoscibili in mezzo ad altri mille, poiché il suono e le melodie che Mr. Mackintosh disegna con la sua chitarra sono estremamente personali e sono il marchio di fabbrica di questo gruppo.
E sin dal primo ascolto, ritrovarsi a sentirli “pestare” come facevano qualche anno fa è stato un piacere assoluto. “Serpent On the Cross” è una bella sorpresa, il classico singolo d’apertura che attira l’attenzione e fa sorridere chi si aspetta sempre un bel tiro.
“Tyrants Serenade” è il classico singolo con cui fare il video per promuovere il disco, che contiene tutti gli elementi che la gente si aspetta.

Però non riuscivo a togliermi di dosso quel senso di fastidio, quel qualcosa che non va. Fino a “Salvation” (pezzo che tra l’altro può annoverare la partecipazione di Alan Averill dei Primordial), dove finalmente torno a sentire quel gusto, quell’ispirazione, quel tocco genuino che ha sempre caratterizzato i nostri.

Ed ecco che subito dopo arriva il terzo singolo, “Silence Like The Grave”: bello sì, ma proprio facilone. Sia nelle melodie, che nella struttura, che nei riff.
E facilone non è un termine che si addice ai Paradise Lost…

Poi tocca attendere fino a “Savage Days” per ritrovare quell’amalgama, quel tiro, quella malinconia di fondo che da sempre è ciò in cui i nostri sono stati maestri. Quel tocco delicato che va a pizzicare le corde più profonde dell’anima e che lo rende uno dei pezzi migliori del disco.
Questo insieme alla chiusura di “The Precipice”, pezzo incredibilmente triste e malinconico, perfetto come chiusura e summa di tutto il lavoro di anni, pezzo che starebbe alla grande di fianco ai migliori della carriera dei nostri.

E gli altri brani?
Belli, per carità, ma in fondo votati ad una vena “acchiappona” che convince, peccando però di longevità.

“Diluvium” e “Sirens” sono canzoni che tentano di smuovere qualcosa, ma che non colpiscono fino in fondo. Se la prima fa pensare a Shades Of God, la seconda rimanda a Draconiane memorie, senza però raggiungere la profondità né del primo, né del secondo.
La già citata “Silence Like The Grave” è un pezzo che funziona alla grande, ma giuro che tutte le soluzioni trovate da Greg siano veramente le prime che ha trovato per scrivere un pezzo del genere.

È con la classe che li contraddistingue e la capacità di trasformare l’esperienza in un risultato ottimo che il tutto risulta credibile e godibile nonostante tutto.

Anche la traccia bonus “This Stark Town” viene da chiedersi perché non sia nella scaletta del disco, dato che è un pezzo particolarmente riuscito.

Paradossalmente, i momenti migliori di questo disco sono quelli dove i Paradise Lost sembrano sedersi a riflettere e rimuginare, quelli più lenti, quelli cadenzati, quelli pesanti.
Mentre per tutto il disco si sente questa ricerca dell’accelerazione, del ritorno al “chuga chuga” con le chitarrone che non avevano un ruolo così importante da diversi anni, con la ricerca alla melodia facile.

Cercando di tirare le fila, tante cose si possono dire di questo lavoro, ma di certo non che sia brutto o mal riuscito.
Ma è tale l’amore che provo per questi signori (definirli ragazzi è ormai difficile) e tali sono le aspettative che ho rispetto alle loro capacità, che non posso non fare a meno di notare che Ascension sia un passo indietro, comparato a quanto fatto anche nel recente passato.
Sono uno di quelli che ha adorato l’ostico Medusa e che continua a non riuscire ad ascoltare Faith Divides Us – Death Unites Us, ciò per dire che alla fine contano anche (e banalmente) i gusti personali.

Però l’onestà intellettuale nell’analisi (probabilmente impopolare) di questo lavoro mi porta ad essere meno entusiasta e meno soddisfatto di quanto sperassi.

Non rimarrete comunque delusi.
Con riserva.

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