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Già dall’annuncio social di inizio maggio ero gasato e sentendo i singoli usciti devo dire che ne è valsa decisamente la pena, per citare una famosissima pubblicità… l’attesa del piacere è essa stessa il piacere…
Con Death Above Life, gli Orbit Culture non si limitano a rilasciare un nuovo disco: danno forma a una dichiarazione d’intenti, un passo deciso verso una maturità artistica che si fa sentire fin dalle prime note.
A partire dal titolo La morte sopra la vita, si percepisce una tensione costante tra distruzione e rinascita, tra l’abbandono del vecchio e la costruzione del nuovo. Non è solo un disco metal, è un viaggio che mescola furia e introspezione, brutalità e lirismo, un’opera che unisce la narrazione sonora e pathos.
L’album segna l’ingresso della band nel roster di Century Media, e il salto qualitativo è palpabile. A occuparsi del missaggio e del sound design è Buster Odeholm, già noto per i suoi lavori con Vildhjarta e Humanity’s Last Breath — due progetti che, come Orbit Culture, si muovono tra metal estremo e ambientazioni atmosferiche.
La produzione è pulita ma pesante, bilanciata senza sacrificare il dinamismo. Ogni strumento ha il suo spazio: le chitarre sono taglienti ma mai ingombranti, la batteria ruggisce ma respira, le orchestrazioni non soffocano — anzi, esaltano. I momenti più “silenziosi” dell’album (come “The Path I Walk”) non risultano come semplici intermezzi, ma come veri e propri atti narrativi.
Se il precedente lavoro, Descent, mostrava un Niklas già solido, in Death Above Life la sua performance è intensamente umana, fragile e feroce allo stesso tempo. Le sue vocals rimangono taglienti e piene di aggressività, ma è nel cantato pulito che si avverte la crescita maggiore: non è più solo una variazione dinamica, ma una scelta narrativa, capace di trasmettere dolore, determinazione, disperazione. Tracce come “Hydra” e “Inside The Waves” sono esempi perfetti di questo equilibrio: la voce si muove come un’onda tra il sussurro e l’urlo, portando l’ascoltatore nel cuore del conflitto.
La base del sound Orbit Culture resta una fusione tra death melodico e groove metal, con chiari riferimenti a Metallica, Gojira, Lamb of God e, per certi versi, Meshuggah nei momenti più sincopati. Ma in questo disco c’è qualcosa in più: un’anima teatrale, una scrittura che guarda alla struttura narrativa piuttosto che alla semplice sequenza di riff.
Le chitarre si prendono libertà atmosferiche, con sezioni armoniche che evocano paesaggi, non solo rabbia. I breakdown sono usati con intelligenza, mai abusati. L’album non si basa sul colpo facile, ma su un’intensità che cresce, cova, esplode e poi ricade.
L’intero album è percorso da una riflessione sul rinnovamento attraverso la perdita. Non si parla di morte fisica, ma di una morte simbolica: lasciar andare parti di sé, relazioni, identità che non servono più. L’oscurità dell’album non è gratuita, ma funzionale. Serve a mostrare che, a volte, solo attraversando la notte si può vedere l’alba. C’è un’eco quasi filosofica nei testi — non sofisticata, ma sincera. L’oscurità è trattata non come estetica, ma come esperienza esistenziale.
Non tutto è perfetto sia chiaro. In certi momenti, soprattutto nella seconda parte del disco, alcune sezioni possono sembrare già sentite o troppo simili tra loro. C’è un piccolo rischio di stanchezza compositiva, dove l’intensità non cresce ma si mantiene costante — e questo può pesare su un ascolto prolungato. Tuttavia, si tratta più di sfumature che di veri scivoloni. Il disco è compatto e coerente, forse proprio perché ha scelto un’identità sonora chiara e riconoscibile.
Death Above Life è un disco che segna la piena maturazione degli Orbit Culture. Un’opera che, pur rimanendo profondamente metal, si apre a una narrazione più ampia, più umana, più profonda.
Non è solo un ascolto: è un’esperienza. E come tutte le esperienze più intense, lascia una traccia.
Un album che unisce potenza e visione. Gli Orbit Culture dimostrano che è possibile crescere senza tradire sé stessi, e Death Above Life ne è la prova più ambiziosa e riuscita… finora, per me uno dei dischi top del 2025.