EDYAKARAN – Pantheon

Titolo: Pantheon
Autore: Edyakaran
Nazione: Italia
Genere: Avantgarde Metal
Anno: 2025
Etichetta: My Kingdom Music

Formazione:

Matteo Meli – Basso
Francesco Paparella – Batteria
Lorenzo Rinaldi – Chitarra
Antonio Ricco – Tastiere


Tracce:
  1. Alfa
  2. Primo Passo
  3. Amore
  4. Secondo Passo
  5. Caccia
  6. Terzo Passo
  7. Guerra
  8. Quarto Passo
  9. Arte
  10. Omega

Voto del redattore HMW: 9,5/10

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Forse quando nasciamo la nostra mente e la nostra memoria sono fogli bianchi su cui tempo, spazio e anima possono liberamente disegnare, scrivere, lasciare il segno.
E magari, senza rendercene conto, scegliamo la colonna sonora che incide le sue tracce sul nostro spirito, eleggendo esattamente ciò che meglio si abbina al cammino che dobbiamo percorrere.
Me lo chiesi una mattina di più di 10 anni fa, mentre stavo con la fronte appoggiata al finestrino di un treno che puntava in direzione Stazione Centrale di Milano, negli anni dell’università.
A far sorgere quella domanda fu l’album Teatroelementale degli In Tormentata Quiete.
Era uscito da diverso tempo e l’avevo scoperto per caso, vagando per la rete.
Colta alla sprovvista dalla sua potenza espressiva, ne rimasi profondamente affascinata.
E parto da qui, con un suggerimento d’ascolto di una band che, dalla sua fine, è mutata in qualcos’altro, continuando a maturare come un buon vino in una bottiglia impolverata, affidata alle sagge e dolci mani dello scorrere del tempo: oggi, con un nome nuovo, vengono alla luce gli Edyakaran e ci raccontano il loro Pantheon, un album che camuffa avant-garde e post black sotto un mantello mimetico tessuto con fili di lirismo e tecnica musicale, prodotto sotto l’egida della My Kingdom Music.

Ediacariano: il terzo e ultimo periodo geologico dell’era Neoproterozoica, subito precedente il periodo Cambriano del Paleozoico, 600 milioni di anni fa. Un luogo più che remoto nel tempo.
La seduzione è già nella scelta del nome di questo progetto, il futuro di una band ritorna al lontano passato.
Pantheon, tutti gli dei.
Dai dieci titoli, sette strumentali e tre cantati, comprendiamo che l’Olimpo dei nostri, da Bologna, ha i suoi punti cardinali in “Amore”, “Caccia”, “Guerra” e “Arte”. Un quadrato racchiuso nel cerchio che si apre e si chiude in un punto non meglio identificato, appartenente all'”Alfa” e all'”Omega”.
Il nostro cammino si inserisce all’interno di un cammino più grande, la storia dell’uomo che col suo dramma percorre le fasi necessarie alla sua evoluzione, un passo alla volta: “Primo Passo”, “Secondo Passo”, “Terzo Passo” e “Quarto Passo” sono i lunghi interludi in questo lavoro, come in un pellegrinaggio che visita e venera i simulacri di queste divinità.
L’uomo al centro di un cerchio e di un quadrato. Qualcuno ha detto Uomo Vitruviano?

Da “Alfa”, apertura del disco, tutto tace, parla solo la musica. Una magistrale introduzione affidata alle percussioni di Francesco Paparella incide subito il silenzio con tratti che ricordano la vita che, sorpresa, si trova calata in quel mondo preistorico.
E così come è accaduto alla vita quando è emersa dall’impermanenza del mondo, la musica evolve senza interrompersi accompagnata su lunghi e ripetitivi, ma non stancanti, tappeti di tastiera che Antonio Ricco le stende davanti.
Il “Primo Passo” ci porta ad “Amore”, la forza primigenia. Delicatamente due vite si incontrano, pulsano, danzano, si scontrano, si intrecciano, corrono, si amano, germogliano, giacciono l’una accanto all’altra. E non serve una parola…

Col “Secondo Passo” arriviamo a “Caccia”, una vera perla: Madre Natura con l’amore crea e genera, ma tutto ciò che è generato non può esimersi dal destino di essere preda o predatore.
Il basso di Matteo Meli, unico a non appartenere alla formazione del passato, è sublime in questo pezzo che prima intona un canto tribale, sciamanico, propiziatorio per i cacciatori affinché tornino carichi di prede. Il branco si mette in moto al suono marziale della chitarra di Lorenzo Rinaldi, bracca la preda, la cinge, la sfianca, la rincorre, la ghermisce e in un assalto finale, armonico e potente, la fa sua. Delicatamente e senza una lacrima la preda si abbandona al suo destino. Ed il capo branco giunge maestoso e forte a dirigere una cerimonia di esaltazione in questo rituale che contempla la morte e le rende grazie per concedere la vita.

È il momento di compiere il “Terzo Passo”, andando oltre la metà di un cammino che annuncia come una marcia solenne la proiezione verso un nemico, e prepara alla domanda: che l’equilibrio di vita e morte in natura sia sovvertito dalla comparsa dell’uomo?
Così entriamo in “Guerra”, che si delinea davanti a noi con la potenza di una scenografia cinematografica, o forse teatrale visti gli illustri trascorsi di questi signori. Compare la voce dell’Uomo, in un duo tra Simone Lanzoni e Marco Beccati, un pezzo dal gusto epic black dove si marca l’inevitabile contatto con la potenza della guerra in un determinismo urlato a pieni polmoni. Il ricordo dei cari vecchi I.T.Q. diventa qui palpabile, in particolare con l’inserimento dei versi di D’Annunzio tratti da “Per la gloria”, e culmina in quell’urlo gutturale, protratto, consapevole, colpevole, senza esserlo del tutto: “Io sono Morte”. L’uomo è anche la Morte.

I nostri fanno un ulteriore “Passo” (in avanti), il “Quarto”: a seguito di uno scenario mortale imploriamo di essere elevati, con la bellissima voce di Irene Petitto, che ci cala dentro atmosfere esotiche e folkloristiche. L’essere umano si mostra in tutta la sua doppia natura: sa essere portatore di distruzione e al contempo generatore del bello, che noi chiamiamo “Arte”, come il penultimo brano. “Giocare con l’essenza” racchiude la capacità dell’uomo di sublimare, trasformare, portare ad un livello superiore tramite le varie forme artistiche.
E se l’arte muta sempre forma, accolgo con piacere e (mezzo) stupore una digressione rap di Gregory Sobrio a intonare qualcosa che ricorda un’ode all’Arte, il divino di cui gli Edyakaran sono evidentemente fedeli sacerdoti. Da capogiro l’ultima strofa di altissimo livello canoro e forte impatto emotivo.
“Omega”. Spaziale e vorticante nei suoi movimenti tra tastiere, basso e chitarra. La fine si percepisce sonoramente nelle sue note malinconiche, una forza che preme il coperchio su questo vaso di Pandora, spingendolo a colpi di doppio pedale.
Gli strumenti escono di scena uno ad uno, fino all’ultimo palpito di vita sostenuto da un basso solitario, un suono primordiale, quello da cui forse tutto ha avuto inizio e verso il quale torneremo, prima del grande silenzio.

 

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