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Enneciesse. Come avrebbe detto il compianto Guido Nicheli, nei panni del commendator Zampetti, con un marcato accento milanese: “cari Patchwork, enneciesse, non ci siamo”.
La band nasce nel 2010 e, ad oggi, ha pubblicato solamente due album. Il quartetto americano, con questo ultimo Scars di, purtroppo, un’ora abbondante, ci regala un tempo troppo lungo da trascorrere in loro compagnia e in compagnia di un thrash di stampo prettamente americano poco – anzi, direi per niente – originale o personale. Dovrebbe suonare anche power e speed, ma il power non so dove sia e lo speed, inteso solo come velocità fine a sé stessa, è invece presente.
Musica veloce e diretta, di impatto si potrebbe dire, ma di uno stantìo che neanche otto palline di naftalina riuscirebbero a toglierne l’odore di vecchio.
Partiamo dai punti positivi e cioè la copertina. Molto bella l’immagine raffigurata e di sicuro impatto che, un tempo, avrebbe attratto un ignaro compratore come me, che si sarebbe ingenuamente fidato della mai sicura equazione bella copertina uguale bella musica. Altro punto a favore sono gli assoli di chitarra di Brad Carlson, un musicista che indubbiamente sa suonare con fantasia le parti soliste mentre, nei riff, e come d’altronde il resto del gruppo, risulta molto meno creativo, troppo poco creativo… per niente creativo. Fine dei punti positivi.
Non voglio addentrarmi ad esaminare pezzo per pezzo quelli che sono i brani perché, in questo caso, non ha alcun senso. Lo so benissimo come il thrash non sia un genere innovativo e che tutti si ispirino ai vecchi maestri, ma qui di ispirazione ce n’è veramente poco o nulla e ci si limita a riproporre la musica degli altri arrangiando alla bell’e buona ciò che ha funzionato quarant’anni fa. Così è troppo. O meglio, così è troppo poco. E ve lo sta dicendo uno che adora il thrash, quello vecchio o nuovo, non importa, l’importante è che sia thrash. Qui non c’è un momento che mi suoni minimamente originale, non uno.
Non so se questa accozzaglia di Big Four sia voluta per rendere omaggio al nome della band, Patchwork, se così fosse mi scuso (ma non troppo, anzi per niente), ma nel caso non lo fosse (cosa che purtroppo temo) non riesco a capire il senso di questa operazione.
La voce è un maldestro tentativo di cantare come il James Hetfield che fu, non riuscendo neanche lontanamente ad andarci vicino, anzi, risultando a tratti anche fastidiosa. I musicisti, invece, si sente come sappiano suonare ed è un peccato, perché questo denota ancora di più la bassa qualità della scrittura.
I testi sarebbero anche interessanti. Scars è una continua e intensa esplorazione delle cicatrici che la vita, con le sue sfide, ci lascia nell’anima e nel corpo. Una riflessione esposta attraverso il percorso del gruppo. Un gruppo segnato da perdite personali e da continue prove a cui i vari membri sono sottoposti nel corso della vita e della loro crescita (?) musicale.
Ho addirittura letto in qualche nota riguardante i Patchwork, che loro si definiscono anche progressive. Questa affermazione mi confonde nuovamente, sono seri o no? Temo, nuovamente, che non abbiano piena coscienza di quello che fanno. O di quello che suonano. O semplicemente di quello che voglia dire progressive.
Ultima nota dolente, la durata. In tutti gli ascolti, non è stato affatto facile arrivare fino all’ultimo pezzo.
È la mia prima insufficienza e per me non è stata facile da assegnare. Però questa volta non posso esimermi. E con la scusa della bella copertina alzo di mezzo voto la mia valutazione (alla fin fine non riesco mai ad essere troppo cattivo). Insomma, non fa proprio per me, e tutto ciò, fidatevi, è strano.
Ogni volta che premo il tasto stop, mi torna in mente l’immagine di un meme che rappresenta in pieno quello che ho provato per tutta la durata dell’ascolto. Rick di “Affari di famiglia” che osserva il commesso Chumlee con il cd in mano che esclama: “Non lo so Rick… per me è falso”. Senza offesa eh.



