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Gli Avatar, sono tornati.
E stavolta non ci dicono “venite al circo con noi”, ma “non andate nel bosco”.
Che è tipo dire a un metallaro “non aprire quella birra”. Risultato?? Birra aperta, nel bosco, e pure a torso nudo, con annessa congestione per chi come me ha superato la quarantina…
Perché se li conosci un minimo, sai che dietro quell’avvertimento c’è solo una promessa: caos e delirio glitterato.
E infatti Don’t Go In The Forest è esattamente questo: un invito a perdersi. Un disco che sa di fango, trucco sbavato, glitter e birre gelate. Un rito collettivo in cui l’unica regola è “non prendersi troppo sul serio”, e gli Avatar si confermano maestri del caos organizzato, quelli che riescono a farti pogare e ridere nello stesso momento, con quella teatralità da circo infernale che ormai è il loro marchio di fabbrica.
Johannes Eckerström è sempre più un personaggio a sé: passa dal ringhio da predicatore infernale alla carezza inquietante da cantastorie.
Ogni parola sembra detta con un sorrisetto beffardo, come se sapesse qualcosa che tu ignori… e molto probabilmente è così.
La band dietro di lui gira che è una meraviglia: i riff ti prendono per il collo, la sezione ritmica ti scuote come un cocktail fatto da un amico barman che ci va giù pesante, e ogni tanto spunta una melodia che ti sorprende, come un raggio di sole tra i rami.
Il bello del disco è che non cerca di essere coerente, è un viaggio delirante in cui puoi trovare groove sudaticcio, cori epici, momenti quasi pop e attimi di pura follia.
Un patchwork di idee che non dovrebbero stare bene insieme, ma che loro riescono a far funzionare alla grande, un po’ come indossare sneakers, armatura e un boa di piume, solo gli Avatar possono farlo e sembrare credibili.
“In The Airwaves” ti fa prendere a testate gli alberi pogando con cervi e tutta la fauna del bosco, “Captain Goat” è una specie di delirio groove in salsa caprina: un pezzo che ti fa muovere la testa anche se sei in fila alle poste, “Death And Glitz” sembra scritta dopo una notte a guardare Elisa TrueCrime su Youtube con la mente mezza spenta e se canticchiate Death and Tits, credetemi… è normale, “Don’t Go In The Forest” è forse il pezzo che meglio riassume il paradosso Avatar: ti mettono in guardia dal bosco, e allo stesso tempo ti invitano ad entrarci. Mentre lo ascolti pensi “perché ce l’hanno con sto cavolo di bosco?!” per poi accorgerti che è il bosco che ce l’ha con te.
C’è un’energia contagiosa in ogni brano, una voglia di divertirsi che trasuda da ogni assolo e da ogni urlo e Johannes Eckerström urla come se avesse appena scoperto che il vicino di casa gli ha rubato il trucco da palcoscenico.
È come assistere a uno spettacolo dove la band ti guarda dritto negli occhi e dice: “Sì, è tutto esagerato e folle. E allora? Ti stai divertendo o no?”.
E la risposta è sempre sì, però aspetta che prendo un’altra birra.
Don’t Go In The Forest non è un lavoro perfetto, ma è vivo, rumoroso, teatrale e pieno di personalità. Non tutti i pezzi sono immediati, certo, qualcuno si perde un po’ nel labirinto sonoro, ma nel complesso è un album che si ascolta tutto d’un fiato e lascia addosso la voglia di pogare in mezzo agli alberi.
È la prova che il metal può essere pesante e leggero allo stesso tempo, cupo ma con un sorriso diabolico stampato in faccia, è un album che non si prende mai troppo sul serio, ma che ti colpisce comunque dritto nello stomaco (e nel fegato, se lo accompagni con dell’alcol).
In fondo, è questo il segreto degli Avatar: ti portano nel buio… ma con la giacca di paillettes.
Musicalmente, il disco è un passo avanti rispetto al precedente: più coraggioso, più vario, più libero. La band osa, sperimenta, gioca. E ci piace così: folli, teatrali, impossibili da etichettare.



