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“Essere o non essere, questo è il problema: se sia più nobile d’animo sopportare le critiche, i sassi degli oltranzisti e i dardi dell’iniqua fortuna (l’indesiderato split con Bill Ward per un contratto inadeguato) o prender l’armi (a sei e quattro corde) contro un mare di scettici e combattendo disperderli.”
I Black Sabbath hanno deciso di combattere, di non arrendersi alle frustate del tempo ed alle più nefaste malattie. Nel corso dei trentacinque anni trascorsi dall’ultimo disco di studio con Ozzy alla voce, i Sabbath sono diventati leggenda e per molti, incluso il sottoscritto, anche la band della vita, quella nel cuore più di qualunque altra.
L’attesissimo “13” è un album amletico, tormentato, che nasce in un mondo decisamente progredito tecnologicamente (anche i Sabbath ora utilizzano Pro Tools), ma anche terribilmente angosciante e come non mai alla ricerca di punti fermi e di un’identità spirituale (“God Is Dead?”). Il produttore Rick Rubin è stato investito di grande fiducia e la scelta ha portato a risultati straordinari: ben sedici nuovi brani registrati, un record per la formazione, con il disco ufficiale che ne presenta otto in omaggio alla tradizione della band nei primi storici capolavori che hanno fatto la storia del rock duro e creato l’immaginario dark che è alla base dell’heavy metal.
L’inizio del disco è un azzardo, con “End Of The Beginning” che ricorda molto la struttura di “Black Sabbath”, l’incipit del primo indimenticabile disco, una suite di otto minuti costruita sui riffs incisivi di Tony Iommi e completata dalla talentuosa sezione ritmica Geezer Butler-B.W. (Brad Wilk non Bill Ward) e dai vocalizzi del figliol prodigo Ozzy Osbourne, che elargisce i suoi classici “alright”,”ok” e “yeah” a profusione a fine pezzo. Il brano, senza alcun chorus, svolge alla grande la funzione di dare il via a quello che in realtà è e resterà sempre, un aspetto fondamentale del Sabbath sound: il concetto di viaggio. Questa non è musica pensata per essere cantata o fagocitata in pochi secondi da radio o tv commerciali. Ogni successivo ascolto del disco ne svela qualche nuovo dettaglio. “God Is Dead?”, il primo singolo, sfiora i nove minuti e ci mostra quanto la band suoni ancora incredibilmente al passo coi tempi pur componendo nello stesso stile dei primi anni ’70.
Con “Loner” la mente vola a “N.I.B.” e i Sabbath ci ricordano di essere maestri anche nello scrivere pezzi rock più semplici ed immediati. La successiva “Zeitgeist” è un ideale seguito di “Planet Caravan”, con tanto di chitarra acustica e bonghi per ricreare l’atmosfera da trip avventuroso perfettamente descritto dalle lyric spaziali: una vera delizia che trova il suo apice quando Ozzy si lancia in una toccante melodia sul finale ad introdurre degnamente l’assolo-outro di Tony. L’evidente dose di autoreferenzialità può essere considerata la croce o delizia del disco. La trovo uno dei piccoli nei di un ritorno discografico grandioso. E anche i nei hanno il loro fascino.
“Age Of Reason”, dal working title azzeccatissimo di “Epic”, vanta forse l’assolo migliore del disco ed è un pezzo marchiato a fuoco dalla Gibson di Iommi, così come la straordinaria “Damaged Soul”, una jam blues con tanto di armonica dal testo maledettamente Sabbath, che ricrea un mood infernale con poche note grazie ad un mix di feeling, ispirazione e coesione esecutiva ai massimi livelli. “Live Forever” è rivitalizzata da un Ozzy particolarmente pimpante e da un sezione ritmica inattaccabile, mentre il compito di chiudere il disco regolare spetta ad una “Dear Father” dal chorus ispirato, con un testo diretto come un pugno in pieno volto, che termina con lo stesso temporale con cui tutto era cominciato quarantatrè anni prima (un’idea di Rubin).
L’inizio del disco è un azzardo, con “End Of The Beginning” che ricorda molto la struttura di “Black Sabbath”, l’incipit del primo indimenticabile disco, una suite di otto minuti costruita sui riffs incisivi di Tony Iommi e completata dalla talentuosa sezione ritmica Geezer Butler-B.W. (Brad Wilk non Bill Ward) e dai vocalizzi del figliol prodigo Ozzy Osbourne, che elargisce i suoi classici “alright”,”ok” e “yeah” a profusione a fine pezzo. Il brano, senza alcun chorus, svolge alla grande la funzione di dare il via a quello che in realtà è e resterà sempre, un aspetto fondamentale del Sabbath sound: il concetto di viaggio. Questa non è musica pensata per essere cantata o fagocitata in pochi secondi da radio o tv commerciali. Ogni successivo ascolto del disco ne svela qualche nuovo dettaglio. “God Is Dead?”, il primo singolo, sfiora i nove minuti e ci mostra quanto la band suoni ancora incredibilmente al passo coi tempi pur componendo nello stesso stile dei primi anni ’70.
Con “Loner” la mente vola a “N.I.B.” e i Sabbath ci ricordano di essere maestri anche nello scrivere pezzi rock più semplici ed immediati. La successiva “Zeitgeist” è un ideale seguito di “Planet Caravan”, con tanto di chitarra acustica e bonghi per ricreare l’atmosfera da trip avventuroso perfettamente descritto dalle lyric spaziali: una vera delizia che trova il suo apice quando Ozzy si lancia in una toccante melodia sul finale ad introdurre degnamente l’assolo-outro di Tony. L’evidente dose di autoreferenzialità può essere considerata la croce o delizia del disco. La trovo uno dei piccoli nei di un ritorno discografico grandioso. E anche i nei hanno il loro fascino.
“Age Of Reason”, dal working title azzeccatissimo di “Epic”, vanta forse l’assolo migliore del disco ed è un pezzo marchiato a fuoco dalla Gibson di Iommi, così come la straordinaria “Damaged Soul”, una jam blues con tanto di armonica dal testo maledettamente Sabbath, che ricrea un mood infernale con poche note grazie ad un mix di feeling, ispirazione e coesione esecutiva ai massimi livelli. “Live Forever” è rivitalizzata da un Ozzy particolarmente pimpante e da un sezione ritmica inattaccabile, mentre il compito di chiudere il disco regolare spetta ad una “Dear Father” dal chorus ispirato, con un testo diretto come un pugno in pieno volto, che termina con lo stesso temporale con cui tutto era cominciato quarantatrè anni prima (un’idea di Rubin).
Un cerchio che si chiude. O forse no. Intanto la versione deluxe del disco regala altre tre perle: “Methademic” ci ricorda che i Sabbath sanno anche spingere sul gas descrivendo gli effetti di una vita sempre più frenetica sotto l’effetto di stupefacenti: anche in questo i Nostri sono stati piuttosto ferrati per anni. “Peace Of Mind” vede la coppia Iommi-Butler (celebri erano i loro baffoni settantiani) in grande spolvero, mentre “Pariah” avrebbe certamente meritato un posto nel disco ufficiale in virtù di un chorus catchy abbinato ad un riffing irresistibile.
In un disco pieno di dilemmi, la produzione moderna scelta da Rubin ha conferito al disco un guitar sound massiccio come non mai, ma in alcuni frangenti (il riff iniziale di “Dear Father” e le bordate di “Methademic”) il prezzo pagato per stare al passo coi tempi con un sound ipercompresso è stato una perdita di range dinamica. Brad Wilk è riuscito nell’impresa di non far rimpiangere troppo il grande assente Bill Ward, entrando con merito nella storia della band.
“13” è un album davvero coraggioso, così traboccante di riff e cambi di tempo. I maestri del “less is more”, con un’intera biblioteca di riff a disposizione da cui attingere (l’archivio sterminato di Tony Iommi), non hanno saputo dire di no a molti dei “parti” del più straordinario riffmaker della storia della musica heavy. Il platter è più di ogni altra cosa uno “stupefacente” viaggio nei più oscuri meandri della mente, tra la desolazione della solitudine ed una malinconia che è propria di chi ama la vita nonostante tutto, tra lo sconforto rassegnato ed un residuo barlume di speranza.
In un disco pieno di dilemmi, la produzione moderna scelta da Rubin ha conferito al disco un guitar sound massiccio come non mai, ma in alcuni frangenti (il riff iniziale di “Dear Father” e le bordate di “Methademic”) il prezzo pagato per stare al passo coi tempi con un sound ipercompresso è stato una perdita di range dinamica. Brad Wilk è riuscito nell’impresa di non far rimpiangere troppo il grande assente Bill Ward, entrando con merito nella storia della band.
“13” è un album davvero coraggioso, così traboccante di riff e cambi di tempo. I maestri del “less is more”, con un’intera biblioteca di riff a disposizione da cui attingere (l’archivio sterminato di Tony Iommi), non hanno saputo dire di no a molti dei “parti” del più straordinario riffmaker della storia della musica heavy. Il platter è più di ogni altra cosa uno “stupefacente” viaggio nei più oscuri meandri della mente, tra la desolazione della solitudine ed una malinconia che è propria di chi ama la vita nonostante tutto, tra lo sconforto rassegnato ed un residuo barlume di speranza.
Outro:
Nell’estate del 1997 (contemporaneamente alla tanto attesa reunion) mi trovavo in Inghilterra ed una notte, da Londra, decisi di fare meta a Birmingham in quanto città natale dei Black Sabbath. Facendolo, convinsi tre cari amici (fino a quel momento ignari di tutto) a trascorrere un “sabato nero” nella tetra stazione dei treni locale. Dalla piccola stazione di Birmingham New Street ricordo ancora in modo incredibilmente vivido un viaggio in treno alle cinque del mattino (senza dormire da due giorni), verso la località vicina più interessante: Stratford-upon-Havon, casualmente la città natale di Shakespeare, ove la prima vista memorabile fu una statua dell’Amleto con il classico teschio in mano. Essere o non essere, questo è il problema: con “13” Tony, Ozzy e Geezer hanno dato la loro risposta definitiva al dilemma decidendo di “Essere” i Black Sabbath. Ancora una volta.
Buon viaggio a tutti.
Tracklist:
1. End of the Beginning
2. God Is Dead?
3. Loner
4. Zeitgeist
5. Age of Reason
6. Live Forever
7. Damaged Soul
8. Dear Father
Deluxe Edition (cd 2):
1. Methademic
2. Peace of Mind
3. Pariah
Line Up:
Ozzy Osbourne (Voce)
Tony Iommi (Chitarra)
Geezer Butler (Basso)
Brad Wilk (Batteria)
Sito ufficiale: www.blacksabbath.com
Facebook: https://www.facebook.com/BlackSabbath
Etichetta Universal / Vertigo Records