06/06/2013 : Sweden Rock Festival – Day 2 (Solvesborg, SVE)


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06/06/2013 : Sweden Rock Festival – Day 2 (Solvesborg, SVE)

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Il mio secondo giorno comincia con le note dei Demon, una delle mie NWOBHM bands preferite, che confermano nei sessanta minuti a loro disposizione quanto di buono il sottoscritto ha già scritto sul conto della formazione capitanata da Dave Hill (unico membro fondatore rimasto) in occasione delle due più recenti live performances del gruppo in Italia sempre nell’ambito di festival. Dall’ultimo disco “Unbroken” è proposta la titletrack e “Fill Your Head With Rock”, titolo che è anche stato scelto come slogan proprio per l’edizione 2013 dello Sweden Rock. La particolarità dello show sta nel’inserimento in scaletta di un paio di richieste da parte di fans improvvisate al momento e non inserite nella setlist ufficiale. Spazio quindi ad “Heart Of Our Time”, “The Plague” e “Blackheath” oltre alle solite acclamatissime “Sign Of The Madman” e all’inno “Don’t Break The Circle”. Penso sia proprio arrivata l’ora di vederli dalle nostre parti con uno show completo. Evergreen.

Conservo ancora vividi ricordi della seconda giovinezza vissuta dal power metal nella seconda metà degli anni ’90 con l’esplosione del metal sinfonico con spruzzi di prog e neoclassicismi vari come se fosse ieri. Tra l’ondata dele bands di maggiore successo, complici alcune coincidenze, non ero mai riuscito a vedere dal vivo i finlandesi Sonata Arctica, un gruppo che per molti anni ha piantato le tende all’Alcatraz di Milano e verso il quale i fans italiani hanno sempre avuto una sincera passione. La band dal vivo ci sa davvero fare, anche se il power metal degli esordi è ora divenuto più simile ad un metal melodico di classe senza troppe sfuriate in doppia cassa e con una minore propensione agli assoli fiume che avevano reso il gruppo ed i connazionali Stratovarius dei paladini assoluti tra tutti i discepoli dei Rainbow e degli Helloween più melodici. La voce di Tony Kakko è rimasta davvero molto bella e le classiche “FullMoon”, “Replica” e “Black Sheep” ben si amalgamano con le nuove “Only the Broken Hearts (Make You Beautiful)” ed “Alone In Heaven” senza mai stancare sostenute dalla solita ineccepibile tecnica strumentale e dalla classica happy attitude della formazione. Promossi.

Seguo e apprezzo i Morgana Lefay ormai da molti anni, il metal act svedese ha sempre ottenuto meno di quanto seminato ma nonostante tutto è ancora lì e ogni tanto sfodera un validissimo disco nuovo a ricordarci il suo stile personale che da un lato prende qualcosa dal power metal più roccioso con pesanti influenze thrash e dall’altro si avventura verso lidi più affini all’epic metal più malinconico e doomy. I Morgana Lefay hanno sempre avuto nella timbrica incofondibile del vocalist Charles Rytkönen il maggior tratto distintivo e nonostante un certo abbassamento di tonalità la voce di Charles si è conservata piuttosto bene. In una scena basata sul merito più che sul push delle etichette discografiche i Lefay avrebbero visto dischi come “Maleficium” o “The Secret Doctrine” assurgere a livelli di notorietà ben maggiori ma la svedese Black Mark non è mai stata la Nuclear Blast. Non è un caso che i Lefay comincino il proprio show proprio con due pezzi davvero tirati tratti dai citati dischi, “Nowhere Island” e “Source Of Pain”, sentiti i quali, con un certo dispiacere, lascio il Festival Stage per dirigermi al Rock Stage dove va di scena un evento alquanto raro come il ritorno on stage dei Survivor.

I Survivor erano attesissimi e non solo non hanno deluso ma sono stati una delle bands migliori del festival. La line-up con i due storici vocalist a condividere il palco è stata un ulteriore bonus che ha reso lo show ancora più speciale. Il gruppo ha suonato alla grande, con il chitarrista Frankie Sullivan particolamente sugli scudi grazie ad assoli davvero convincenti e ad una stage presence eccellente. Nel duello tra i due cantanti è Jimi Jamison a trionfare, anche se Dave Bickler potrà sempre dire che la più grande hit della formazione, la celeberrima “The Eye Of The Tiger” dalla colonna sonora di Rocky III fa parte del suo repertorio. Jamison, oltre a vantare una timbrica più personale ed un maggiore carisma sul palco dispone anche di maggiore calore rispetto al vocalist di origine tedesca. Con pezzi del calibro di “High On You”, “The Search Is Over” e “I Cant’ Hold Back” il tempo vola ed ogni amante della melodia ha di che gioire con la sensazione comune che la fine dell’acclamato show arrivi fin troppo presto, nonostante i quasi novanta minuti di best of A.O.R. ed una grandiosa versione di “Burning Heart” dal quarto capitolo cinematografico dedicato allo stallone italiano.
I Survivor hanno dimostrato di possedere ancora la stoffa dei campioni tra i pesi massimi del rock melodico.

Sembrerà strano paragonare un ex attore di telefilm e soap, un belloccio ex modello come Rick Springfield, a quello che è ritenuto da moltissimi il miglior artista live al mondo, il mitico Bruce Springsteen. Sarà, però la carica incredibile di Rick dal vivo, unita alla sua straordinaria forma fisica (Rick è un sessantaquattrenne con un fisico da far invidia a molti ventenni) ricorda non poco la grinta del boss pur non essendo abbinata alla stessa vena poetica nel songwriting dell’autore di “Born To Run”. Il live show di Springfield fu per il sottoscritto la vera sorpresa dello Sweden Rock nel 2010 e dopo tre anni non posso che parlare di grande conferma. Forte di un ottimo nuovo disco come “Songs For The New Millenium” Rick può sfornare una scaletta rinnovata di ottima presa grazie al suo rock energetico e positivo farcito da una miriade di melodie di ottima presa. Per gli appassionati di rock melodico restare impassibili davanti a pezzi come “Affaire Of The Heart” e “Jessie’s Girl” è impresa assai ardua e quando Rick sfodera il suo numero migliore, quello della traversata dal palco al mixer in mezzo a una miriade di fans lo show raggiunge il suo apice e Springfield dimostra ancora una maestria eccezionale nel tenere in pugno il suo pubblico. Brani come “Human Touch”, “Don’t Talk To Strangers” e le nuove perle “I Hate Myself” e “Our Ship’s Sinking” fanno il resto. Un vero spasso.

Gli Status Quo sono dei maestri del rock’n’roll più trascinante e dal vivo la carica del loro boogie unita alle melodie bluesy ottengono il risultato di coinvolgere un rock stage gremito in ogni ordine di posti in una danza collettiva davvero entusiasmante che coinvolge almeno tre se non quattro generazioni di rockers. L’Inghilterra, da sempre la patria del rock, non poteva che dare i natali anche agli Status Quo ed al loro carico di riffs incredibilmente catchy sui quali i Quo hanno sempre posato linee vocali tanto semplici quanto accattivanti. Parlare di pezzi di storia del rock come “Caroline”, “Down Down” e soprattutto di “Whatever You Want” può apparire scontato, sentirle suonate dal vivo con grinta e precisione è però qualcosa di davvero memorabile e lo spettacolo è una carrellata di classici imperdibili eseguiti da una formazione storica ancora assolutamente credibile e portentosa in sede live. Francis Rossi, a più di mezzo secolo dalla formazione del gruppo è ancora dietro al microfono accompagnato dalla sua Telecaster e dal fido chitarrista Rick Parfitt con il quale costituisce una delle coppie più affiatate di chitarristi di sempre (insieme dal 1967!). L’unico neo dello show degli Status Quo è quello di proporre principalmente pezzi sullo stesso canovaccio sonoro dalla prima all’ultima canzone con l’eccezione della più rilassata melodia di “In The Army Now” ma a giudicare dall’entusiasmo con il quale anche i solitamente introversi svedesi battono il tempo e canticchiano hits come la cover di “Rockin’ All Over The World” o “Paper Plane” proposte con la grinta di sempre non ascriverei la cosa come critica ma più come caratteristica del gruppo che peraltro ha pagato anche discretamente bene nel corso degli anni. Quasi centoventi milioni di dischi, mica bruscolini. Monumento del rock.

Dello Sweden Rock si conosce soprattutto la propensione per le bands hard rock e per tutto ciò che è melodico ma non vanno di certo dimenticate le old school metal bands, quelle che hanno contribuito a forgiare il true metal sound. Tra queste, un posto di assoluto rilievo lo meritano senz’altro i Manilla Road capitanati dal grande vecchio Mark Shelton, appena tornati sulla scena con il nuovo disco “Mysterium”, dal quale abbiamo ascoltato dal vivo “The Grey God Passes” e “Only The Brave” che richiamano a chiare lettere lo stile dell’epic metal perfezionato dalla band negli anni ’80. I Manilla Road, oltre alla vena epica delle loro composizioni, sono anche noti per il sound grezzo, a volte davvero “povero” di molti dei loro dischi di studio. Sentirli per un full show di novanta minuti con un sound decisamente all’altezza è quasi toccante e la buona platea di old schoolers radunatasi sotto il Soundstage per fare un po’ di sano headbanging al ritmo imposto dai riffs e dalle drum parts di pezzi come “Death By The Hammer”, “Heavy Metal To The World” e “Crystal Logic” sembra gradire moltissimo. Uno show dei Manilla Road è anche un’eccezionale sfilata di metallari-e che sfoggiano giacche di jeans e/o pelle adornate da toppe di miriadi di old school bands in omaggio alla tradizione di chi ha diffuso il verbo dell’heavy metal nel corso delle ultime quattro decadi. Se the Mark “the shark” Shelton ha dimostrato ancora una volta di essere un grande condottiero sul palco, un plauso va  anche al main vocalist Bryan Patrick ed alla pimpante sezione ritmica. Il sipario è calato con le classiche “Necropolis” e “Flaming Metal Systems”. Una lezione di storia del metallo.

Al mio settimo show degli Amon Amarth, pensavo che ben difficilmente avrei visto qualcosa di nuovo da Johan Hegg e dal resto della band, nel bene e nel male s’intende. Questa volta però la formazione svedese, forte di un buon budget fornitole dall’organizzazione dello Sweden Rock, non ha portato sul rock stage un semplice concerto metal, ma quello che con molta fantasia ha chiamato il “viking show”, una versione molto più pacchiana e bombastica del normale spettacolo, con tanto di imitazione di una scocca di nave vichinga a centro palco e con un buon numero di attori travestiti da vichinghi a fingere di darsele di santa ragione con le armi tradizionali descritte nella songs più battagliere del gruppo (quasi tutte). La componente visiva dello show, reso ancora più speciale da un abbondante uso di effetti pirotecnici (e non solo durante “Death By Fire”) ha reso la show più interessante e unico rispetto al solito. La prestazione della band è stata come sempre ineccepibile dal punto di vista della tenuta del palco con una scaletta che è sembrata un best of con un occhio di riguardo per “Twilight Of The Thunder God”, probabilmente l’album più conosciuto e amato dalla maggioranza degli spettatori. Del nuovissimo disco, ancora non uscito il giorno dello show, è stata eseguita solo la titletrack “Deceiver Of the Gods” che dà una sensazione di già sentito che è allo stesso tempo rassicurante e preoccupante. La realtà è che proprio da dopo “Twilight..” gli Amon Amarth sembrano un pizzico meno ispirati e ancora più autoreferenziali dal punto di vista musicale, caratteristica che la band ha quasi sempre avuto salvo un paio di capitoli discografici come “Fate Of Norns” che tendeva a rallentare i tempi per aumentare il livello di atmosfera e di groove dei pezzi come testimoniato dalla epica titletrack presentata anche in questa esibizione. E’ proprio questa caratteristica unita alle efficaci melodie disseminate in quasi tutti i pezzi a sollevarne il livello e ad aver portato il gruppo ad un livello di notorietà davvero elevato. Alla prossima vichinghi.

Un headlining show dei KISS in un contesto grandioso come quello del Festival Stage allo Sweden Rock crea aspettative esagerate. Uno stage show completamente rinnovato con il già famoso ragno metallico gigante a campeggiare sul palco, il nuovo disco “Monster” da promuovere, la storia del rock da ripercorrere e l’immagine dei Kiss a campeggiare un po’ ovunque nella gigantesca location utilizzata per il festival. Nonostante le grandi premesse lo show ci ha ricordato che al di là del contorno scenografico, aspetto nel quale i Kiss sono da sempre impareggiabili rendendo divertente e memorabile ogni singolo loro spettacolo, alla fine della fiera ogni performance live (senza playback) dipende principalmente dalla forma e dalla vena dei musicisti sul palco. E Paul Stanley in questa serata era assolutamente inascoltabile, vittima di problemi vocali probabilmente derivanti dai postumi del suo recente intervento e ancora ben lontano dall’aver recuperato un’oncia dello straordinario talento vocale che prima lo rendevano in tutti i sensi la “stella” della band. La condizione dell’ugola di Paul in questo show era così disastrosa da richiedere un improvvisato cambio di setlist, una rarità assoluta per uno spettacolo tanto meticolosamente costruito come quello dei Kiss. Quindi più spazio ai pezzi cantati dal bassista Gene Simmons come “Calling Dr. Love” e “Deuce” e canzoni come “Heaven’s On Fire” messe in naftalina in attesa di tempi migliori (pezzo eseguito a Milano solo pochi giorni dopo).
I Kiss divertono la sterminata legione di rockers come solo loro sanno fare, ma ascoltare quello che è sempre stato il loro fiore all’occhiello in difficoltà anche nel presentare i pezzi lascia un amaro in bocca difficile da mandare giù per ogni kissmaniac che si rispetti. Ci consoliamo con le pose uniche dei nostri, chitarre che sparano fuochi d’artificio, rockers che volano, demoni che sputano sangue e pezzi di storia del rock serviti in pasto a legioni di rockers adoranti come “Shout It Out Loud”, “Detroit Rock City” e il delirio finale di “Rock And Roll All Nite” prima della parentesi nel rock in versione dancefloor di “I Was Made For Lovin’ You”. A conti fatti, si è trattato comunque di uno show incredibilmente appagante dal punto di vista visivo con tanto di ripasso della storia del glam rock.

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