17/05/2014 : Metalitalia Festival (Trezzo Sull’Adda, MI)


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17/05/2014 : Metalitalia Festival – Live Club, Trezzo Sull’Adda (MI)

AT THE GATES
IMPALED NAZARENE
IN.SI.DIA
MASTER
DESASTER
HOUR OF PENANCE
NECRODEATH
ANY FACE
GAME OVER

Metalitalia Fest

Il Live Club di Trezzo ospita la terza edizione del Metalitalia Festival, che oltre a festeggiare adeguatamente il noto portale, è ormai diventato uno dei festival di riferimento per gli appassionati delle sonorità più pesanti. Il bill di quest’anno è decisamente il più estremo messo insieme dalla Eagle Booking Live Promotion e fa un certo effetto rientrare nel locale dopo averci passato tre giorni splendidi al Frontiers Festival e vederlo riempito di una audience decisamente più dark ed in linea con la proposta durissima (ed in certi casi blasfema) di quasi tutte le bands oggi in cartellone.

Game Over 1

Eccezione alla regola sono i ferraresi GAME OVER, che con i loro sorrisi contagiosi ed il loro old school thrash metal riescono a scaldare il pubblico già dai primi riffs del loro breve set. La simpatia del frontman e bassista “Reno” (che ricopre il ruolo di bassista anche nei più “classic” Asgard) è davvero contagiosa ma la marcia in più della band è la stage presence ed in particolare la grandissima naturalezza con la quale questi ragazzi stanno sul palco senza mostrare alcun segno evidente di pressione. Il monicker Game Over evoca i videogiochi e pensando a questa formazione mi sembra davvero calzante, a livello concettuale, riprendere uno degli elementi di valutazione più importanti in campo videoludico: la giocabilità. Un gioco è tanto più bello quanto è più divertente da provare indipendentemente dal livello di innovazione. Lo stesso dicasi per i Game Over, per nulla originali nel songwriting ma davvero spassosi. Con l’augurio di diventare i Super Mario del thrash metal salutiamo questi giovani thrashers, che guadagnano punti bonus con l’esecuzione di un pezzo ispirato al grande “…E tu vivrai nel terrore! L’aldilà” di Lucio Fulci tratto dal nuovissimo disco “Burst Into the Quiet” . Anche questo livello è stato superato. Riusciranno i nostri eroi a salvare la principesse dalle grinfie del boss finale?

Any Face 5 metalitalia-festival

La seconda band a calcare il palco del Metalitalia.com Festival sono gli ANY FACE. I varesini, alfieri di un intricato death metal di stampo statunitense, dimostrano di saper tenere la scena alla perfezione, regalando agli astanti una mezz’oretta abbondante di ottimo intrattenimento in attesa dei pesi massimi più in alto nel bill. Capitanati dal carismatico singer Luca Pitzianti, i quattro lombardi imbastiscono uno show decisamente coinvolgente e convincente, incentrando la loro scaletta sui loro brani più conosciuti, con un occhio di riguardo per quelli contenuti nell’ultimo “Perpetual Motion Of Deceit”. In particolar modo risultano decisamente apprezzate la title-track e “Desensitized”, anche se pure la complessa “Fading In Confusion” fa la sua ottima figura. A chiudere ci pensa la classica “Dead Corpse Walking”, che mette tutti d’accordo: davvero uno show coi fiocchi.

Necrodeath 1

Dopo un rapido cambio di palco, arriva il momento dei NECRODEATH. Il leggendario ensemble genovese, nonostante la penalizzante posizione in scaletta, fornisce una prestazione che sfiora molto da vicino la perfezione, per la gioia del pubblico (finalmente numeroso) accorso ad assistere alla loro esibizione. Una sorta di “best of”, che in 40 minuti ripercorre quasi per intero la trentennale carriera dei liguri, dal seminale “Into The Macabre” a “The 7 Deadly Sins”, uscito da appena una settimana. Pronti-via e la mattanza inizia con la recente “Forever Slave”, che va però subito a scontrarsi con un primo tuffo nel passato giurassico del combo, dal quale viene riproposta la letale doppietta “At The Mountains Of Madness”/”Necrosadist”. Il gruppo appare in piena forma e la consueta devastante prova dietro alle pelli di Peso ha come contraltare un Flegias in forma smagliante, pienamente a suo agio nell’interpretare brani anche di epoche diversissime tra loro.
Il concerto prosegue con due classici di fine anni ’90 come “At The Roots Of Evil” e “Hate And Scorn”, che fanno il paio con delle vere e proprie bordate soniche come “The Creature” e “Mortal Consequence”, anch’esse provenienti dalle prime registrazioni post-reunion. A riportare all’attualità ci pensano poi il singolo “Master Of Morphine” e la nuovissima “Lust”, unico estratto dalla loro ultima fatica in studio, ma il finale è nuovamente tutto di marca old school: prima l’inquietante carillon di “Agony” introduce l’anthemica “The Flag Of The Inverted Cross” (forse il brano più celebre della band) e poi ogni freno inibitorio dei ragazzi nel moshpit viene meno, grazie ad un’ incendiaria e primordiale “Mater Tenebrarum” e alla strepitosa “Black Magic”, cover degli Slayer e degna conclusione di un’ottima performance, sicuramente la migliore a cui chi scrive ha potuto assistere.

Hour Of Penance 1

Un monolite. Un unico, denso, interminabile e devastante susseguirsi di riff dalla furia cieca e dalla potenza strabordante, senza aperture melodiche né strizzatine d’occhio a ritornelli catchy o a passaggi faciloni. Un batterista semplicemente disumano e una capacità di tenere il palco degna dei pesi massimi del death metal d’oltreoceano. Una dimostrazione di classe, preparazione tecnica e attitudine senza compromessi. Questo, in buona sostanza, è il riassunto della mostruosa esibizione degli HOUR OF PENANCE. I capitolini (probabilmente la band di metal estremo tricolore attualmente più famosa al mondo insieme ai Fleshgod Apocalypse) sciorinano una prova a dir poco entusiasmante, annichilendo letteralmente la platea. La scaletta premia in particolare l’ultimo album “Regicide” dal quale vengono tratte la terrificante title-track, “Resurgence Of The Empire” e “Theogony”, ma anche il resto della carriera del combo non viene messo da parte e se, come di consueto, “Misconception” chiude il concerto, “Paradogma” e “Sedition” sono godimento puro per i padiglioni auricolari. Certo, forse con dei settaggi a livello di sound migliori (cosa che ha penalizzato praticamente ogni concerto della giornata) potremmo sperticarci in giudizi e paragoni ancora più lusinghieri, ma vi possiamo assicurare che nessuna parola è stata esagerata: gli Hour Of Penance non hanno davvero fatto prigionieri.

Desaster 1

I DESASTER sono un gruppo tedesco di old school black-thrash metal che riprende alcuni degli stilemi più diffusi delle formazioni metal teutoniche: sound granitico e compatto, stage presence imponente, pezzi solidi e potenti ma non fantasiosi, tecnica non trascendentale ma coesione esecutiva impressionante ed un rapporto schietto e cordiale con l’audience. Se penso a Kreator, Sodom, Destruction (il monicker Desaster è ispirato al loro classico “Total Desaster”), Grave Digger o ai più recenti Varg solo per citare i primi che mi vengono in mente, queste caratteristiche sembrano insite nel dna teutonico.
Tra le frecce più appuntite nella faretra dei Desaster va certamente citata la loro capacità di rendere incisivi e catchy brani di un genere come il black metal che a fatica è in grado di produrre brani memorabili come l’inno “Metallized Blood”, eseguito a fine concerto e urlato da un coro imponente di fans. Non va dimenticata nemmeno l’abilità dei Desaster di creare atmosfere oscure e malinconiche con l’inserimento di melodie gotiche di buona fattura come in “Teutonic Steel” dall’ispirato incipit di matrice folk. Il sound dei Desaster incarna elementi di classic thrash metal ed un’attitudine punk che dal vivo sono in grado di elevare il tasso di godibilità dei brani suonati. Una nota di merito va al chitarrista Infernal, in seno alla band dalla sua formazione nel 1988, che dispone di un “tocco” molto old school in fase di riffing ed è in grado di suonare parti di chitarra apparentemente semplici ma molto evocative sulla scia dei primi Venom, Hellhammer e Celtic Frost oltre ai citati colossi del thrash tedesco. Old school rules!

Master 1

Parlando di old school, davanti a Paul Speckman ed ai suoi MASTER è doveroso togliersi il cappello. Il nostro è stato uno dei primi death metal vocalists di sempre, avendo cominciato ad emettere i primi “vagiti” con il classico growling d’ordinanza nei primissimi anni ’80. Se questo non bastasse, per più di trent’anni il nostro è rimasto fedele alle sonorità del death metal old school con una perseveranza ed una prolificità che probabilmente non hanno eguali.
Al termine dell’opening song “Master”, dall’omonimo disco di debutto del 1983, non che ce ne sia bisogno, Speckman ci ricorda di essere qui per i supporters dell’underground e di non essersi mai venduto. I primi due album sono saccheggiati e quindi c’è solo la chance di ascoltare “The Parable” dal nuovo album “The Witchhunt” e “Smile As You’re Told” dal precedente “The New Elite”, entrambe molto incisive. Durante le pause tra i brani Paul parla il modo tanto rilassato e tranquillo da non sembrare nemmeno un artista death metal, in totale contrasto con le presentazioni dei pezzi con vocione cattivissimo scelte dai ragazzi più giovani. La clamorosa “Funeral Bitch” è preceduta da una grottesca storiella che merita di essere ripescata su Youtube ed è uno dei pezzi più ispirati di un live set inattaccabile per solidità della sezione ritmica e veemenza della performance vocale.
Capitan Speckman si guadagna ulteriori punti a fine concerto, offrendosi spontaneamente di scrivere di proprio pugno tutta la setlist dello show (non presente sul palco) per il sottoscritto. Un gesto gentile che dimostra una disponibilità non comune, prontamente premiato dall’acquisto di una quelle t-shirts da non far mai vedere alla propria nonna, con una miriade di teschi in bella mostra nell’artwork dello storico Mark Riddick. Grandi Master.

In Si Dia 1

Agli In.Si.Dia il coraggio non manca di certo. Già tornare sulle scene dopo tanti anni implica confidenza nei propri mezzi ed una grande voglia di rimettersi in gioco, ma scegliere di ripresentarsi dal vivo nella data più prestigiosa dalla reunion in un festival di musica estrema è quasi un atto degno di Braveheart. L’inizio dello show è un piccolo warm-up (dopo la data “segreta” del Kolony) sia per la band che per il pubblico, in buona parte del tutto nuovo alla formazione bresciana. Certo, ci sono probabilmente circa duecento ragazzi (alcuni dei quali un po’ cresciuti ormai) venuti apposta per loro a cantare ogni singolo brano dell’intero set, ma l’impresa compiuta dai nostri è quella di conquistarsi, nel giro di tre pezzi, anche quasi tutti gli altri presenti. All’attacco di “Grido” sento infatti che l’investimento emotivo in questo show sta diventando davvero collettivo. Solo quando una band torna sulla scena dopo tanti anni si ha la reale cognizione di quanto bene un sound e dei testi siano invecchiati.
L’old school thrash metal degli In.Si.Dia, che pesca a piene mani nei capolavori del genere come “Ride The Lightning” è ormai un suono senza tempo, un evergreen, mentre gli originali testi in italiano della band suonano attuali più che mai (“Terzo Millennio”) quando non addirittura profetici se pensiamo alla storia recente del nostro paese-pianeta dallo scioglimento della band ad oggi.
Dal vivo è la chitarra solista di Manuel “Manny” Merigo a lasciare maggiormente il segno, con il suo tocco melodico che viene fuori in pezzi pregiati come “Il Tempo” e nella maestosa cavalcata di “Sulla Mia Strada”, dove si fa apprezzare il lavoro in fase di riffing del nuovo arrivato Alessandro Venzi. Il bassista Fabio Lorini, chiamato a sostituire Riccardo Panni dietro al microfono, fa la sua parte anche se non è un frontman nato e si vede. Le sue espressioni facciali riescono però ad emozionarmi non poco quando dipingono i colori dell’entusiasmo e della passione fino ad arrivare a punte di commozione davanti all’affetto sempre crescente dei fans. Ci sono ancora margini di miglioramento ma i brani dal vivo funzionano benissimo, come lo sfogo totale di “Fuggire” ed il caldissimo gran finale cantato a squarciagola di “Tutti Pazzi” con la sezione ritmica completata dal drummer Alberto Gaspari sugli scudi. La scommessa della formazione thrash bresciana viene dunque vinta, dopo una “battaglia” sonora dall’esito per nulla scontato. Le emozioni sono arrivate al bersaglio. Bentornati Insidia. Ora, speranzosi, vi aspettiamo con un ritorno discografico che possa scolpire anche nella storia del metal del “terzo millennio” quelle tre sillabe mai dimenticate.

Impaled 1

Accompagnati da un’aura mistica e da uno stuolo nutritissimo di fans, è compito degli IMPALED NAZARENE fare da guest di iperlusso per gli At The Gates. I finnici mettono in piedi lo spettacolo che si aspettano tutti: ignoranza come se piovesse, satanismo (volutamente e ironicamente) da quattro soldi, brani sparati in successione e alla velocità della luce e tanto humor nero, nerissimo. Tanto per capirci, stiamo parlando di una setlist che vede uno a fianco all’altro pezzi come “Sadistic 666 / Under a Golden Shower” e “The Lost Art Of Goat Sacrificing” oppure “Ghettoblaster” e “Motörpenis” con nel mezzo un Mikka Luttinen molto molto lontano dall’essere sobrio (si narra, a tal proposito, di un pomeriggio ai limiti del coma etilico) sproloquiare di libertà di espressione e di parola ad ogni pausa tra un pezzo e l’altro per poi, ovviamente, annunciare un pezzo che fa più o meno così:

Why should we tolerate pansy faggot shit
Not even in an animal world male sucks male dick
Crawl back under the rock you faggots came from
This is real fucking world, fuck you rinferior rights!
Zero tolerance, no fucking rights
Monkey fucks monkey, punishemnt is A.I.D.S.
It is disgusting!!
Listen you fucking homo boys, your time has come
And if you are a lasebian, you still got a cunt to rape

IT IS UNNATURAL!!

Risparmiandovi (e lasciando a voi il piacere) la traduzione, dal punto di vista strumentale il combo si esprime su ottimi livelli, con in particolare il drummer Reima Kellokoski nel ruolo di vero e proprio trascinatore e il chitarrista Tuomo Louhio a macinare riff uno dietro l’altro come una macchina. E’ ovvio, però, che la parte del leone la faccia Luttinen, con la sua voce tra sgraziatissimi acuti e gargarismi dalla gola cartavetrata, il tutto con un’attitudine sporca, stradaiola e punk fino al midollo. Il concerto si dipana senza grossi intoppi e alla fine i Nostri riusciranno a concentrare (nell’oretta a disposizione) addirittura 26 pezzi, concedendosi anche il lusso del bis, affidato alla rapida successione di “Goatzied”, “The Horny And The Horned” e poi al gran finale con “Sadhu Satana” e la classicissima “Total War – Winter War”. In definitiva, non ci troveremo di fronte a uno spettacolo per i palati più fini che ci siano in circolazione, ma gli Impaled Nazarene hanno confermato ancora una volta il loro status di band di assoluto culto. Nè più né meno.

At The Gates 1

Un buon concerto, ma che lascia tonnellate di amaro in bocca. Eh, si stiamo parlando degli AT THE GATES. Saliti sul palco (alle 23.30) al termine di una giornata infinita e accompagnati da un’attesa spasmodica, gli svedesi hanno proposto un buono show, che però resterà negli annali non propriamente in positivo.
Il principale (e unico, ma enorme) problema della serata si è manifestato non appena gli scandinavi hanno fatto la loro comparsa, attaccando a 200 all’ora l’inno “Suicide Nation”: ci vediamo bene o sono solo in quattro? Si ci vediamo bene ed è lo stesso “Tompa” Lindberg a confermare la perfetta salute del nostro sistema di messa a fuoco, avvisandoci che lo storico chitarrista e fondatore Anders Bjorler è malato e che quindi avremmo potuto assistere alla prima esibizione di sempre degli At The Gates senza il loro membro fondatore.
Al di là delle scuse anticipate per quanto riguarda la resa sonora e le ovvie promesse di ritorno in formazione completa, il danno è abbastanza grosso. L’assenza di una delle due asce si fa evidente in moltissimi pezzi e se da un lato è proprio l’aria a non essere “piena” per la mancanza di una delle due chitarre, in alcuni passaggi (vd. la parte centrale di “Cold”) il problema è decisamente più strutturale, con il già citato singer ad incitare la folla al sing-a-long delle parti che il solo Martin Larsson da solo non può rievocare troppo fedelmente. In ogni caso, anche a quattro non significa che gli At The Gates non sappiano il fatto loro, come conferma il massacro che si è scatenato tra le prime file. Se è vero il vecchio adagio che dice che la violenza di un pogo si vede più che dai feriti dal numero (e dalla frequenza) di persone che cadono per terra, il moshpit dei nordici è proprio uno di quelli in cui andare con l’armatura. Se infatti pezzi come “Raped By The Light Of Christ” o “The Beautiful Wound”, pur potenti e aggressivi hanno catturato l’attenzione più “colta” del pubblico è sui brani tratti da “Slaughter Of The Soul” che la violenza pura e cieca si è impadronita dei fans più oltranzisti del quintetto (ops, quartetto) di Gothenburg. La title track, “Word Of Lies”, “Under A Serpent Sun”, ma sopratutto “Nausea” e una mostruosa “Need” risuonano come delle vere e proprie sventagliate di mitra, con soprattutto l’ultima citata a scatenare il caos totale tra le prime file.
In tutto questo anche i bodysurfers hanno trovato pane per i loro denti, cosa che, tuttavia non pare essere stata troppo apprezzata dalla security, che, come anche confermato dai fotografi presenti, ha più di una volta maltrattato e trascinato di peso (con modi oltremodo ingiustificatamente decisi) i ragazzi giunti oltre le barriere durante lo spettacolo. A tal proposito sarebbe curioso sapere se i membri della sicurezza siano mai stati a un concerto metal, ma sopratutto, forse, sarebbe consigliabile per i proprietari di locali o per gli organizzatori in genere ingaggiare, per determinati tipi di live, persone che appunto siano state dall’altra parte della barricata e che si rendano conto che è perfettamente normale “volare” tra palco e pubblico, non trovando la cosa pericolosa o una “sfida” nei confronti di chi deve garantire il corretto svolgimento della serata dal punto di vista dell’incolumità dei partecipanti. Lo stesso tipo di dubbi deve aver sfiorato anche Lindberg, che più di una volta ha suggerito ai nerboruti uomini della sicurezza di rilassarsi e darsi una calmata, arrivando anche a non cantare alcune parti dei brani proprio per sincerarsi del trattamento ricevuto dai propri fans. Sistemata anche questa questione, il rossocrinito frontman porta lo show verso la conclusione, affidata prima ad una “Unto Others” sparata alla velocità della luce, poi alla fondamentale e celeberrima “Blinded By Fear” e infine al megaclassico “Kingdom Come”, prima della quale ci viene ricordato che, purtroppo, il concerto sta finendo in anticipo poiché alcuni brani come “Windows” o “With Fear I Kiss The Burning Darkness” con una chitarra di meno è proprio impossibile riproporle.
In ogni caso, il boato che ha accompagnato gli svedesi giù dal palco è stato la conferma di un pubblico che ha comunque apprezzato questa esibizione “monca”. Certo, questa era la prima volta che tornavano in Italia dal 2008, siamo sicuri che riusciremo a vederli in formazione completa prima del 2020? Attenderemo le loro mosse, noi, da par nostro, possiamo promettere che ci saremo.

In conclusione, ancora un’edizione molto positiva per il Metalitalia Fest, che con un grande headliner, acts storici, cult bands, un grande ritorno e giovani speranze pare aver soddisfatto davvero tutti i presenti anche grazie alle possibilità logistiche offerte dalla location del Live Club, che si conferma sempre all’altezza per questo genere di eventi. Al prossimo anno. Horns up!

Di seguito altre foto della serata, realizzate da Massimo “Max Moon” Guidotti e da Ivo Palummieri.

Le foto degli Any Face sono di proprietà di Metalitalia.com , si ringrazia Luca Pessina per la collaborazione.

Game Over:

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Any Face:

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Hour Of Penance:

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Necrodeath:

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Desaster:

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Master:

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In.Si.Dia:

In Si Dia 5  In Si Dia 6  In Si Dia 7  In Si Dia 8  In Si Dia 9  In Si Dia 2  In Si Dia 3  In Si Dia 4

Impaled Nazarene:

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At The Gates:

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Altre foto varie:

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