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La Tsunami Edizioni ha recentemente pubblicato “Le Stagioni Della Luna – Gli Opeth dal death al prog”, un libro che ripercorre in maniera completa ed esauriente tutta la storia degli Opeth dagli esordi fino al dopo “Heritage”. Dopo averlo recensito (trovate il link a fondo pagina) abbiamo deciso di andare a fare due chiacchiere con Eugenio Crippa e Filippo Pagani, gli italianissimi autori del testo.
Vista la loro grande disponibilità e i molteplici argomenti di discussione ne abbiamo approfittato per parlare anche di altro, rendendo queste “due chiacchiere” davvero lunghe e speriamo anche interessanti!
Buongiorno a Filippo Pagani e ad Eugenio Crippa e benvenuti su HMW! Parto con il chiedervi perché vi siete dedicati proprio agli Opeth: cosa hanno di più – secondo voi – rispetto alle altre band odierne?
FP: Ci siamo dedicati a loro per varie ragioni. In primo luogo adoriamo l’originalità della loro proposta, che dapprima ha saputo riscrivere la grammatica del metal estremo con spunti avventurosi ed eclettici, per poi evolversi in qualcosa di nostalgico e ugualmente particolare. Conosciamo ogni microsecondo di musica da loro inciso e conosciamo direttamente (quasi) tutti i membri passati e attuali della band.
Siamo cresciuti e maturati anche grazie alla loro musica, che non ci ha ancora abbandonato e mai lo farà. Infine c’è la ragione più personale: sono tra i collanti della nostra lunga amicizia.
EC: Comincio subito con una precisazione: sembra quasi che ci sia stata assegnata una rosa di nomi sui quali scrivere un libro e tra quelli abbiamo scelto gli Opeth. Il punto è che li conosciamo molto bene, avendoli seguiti senza mai abbandonarli dal momento in cui ci siamo imbattuti nella loro musica. Per una serie di coincidenze gli editori, che già pianificavano la pubblicazione di un libro sul gruppo svedese, sono arrivati a noi.
Quanto ci avete messo a scrivere il libro? Ho trovato molto interessante la prima parte sugli esordi, è stata quella la parte più difficile, con poche info a riguardo visto l’underground in cui si muovevano?
EC: La realizzazione completa del libro è durata circa un anno, a partire dal primo incontro con i ragazzi della Tsunami nella primavera del 2013 alla pubblicazione a fine aprile 2014. Non saprei dire se la prima parte sia stata la più difficile. Tra l’estate dello scorso anno e marzo, oltre a tutto il materiale raccolto negli anni, ho continuato ad acquistare vecchie e nuove riviste e a cercare ovunque, specialmente in rete, qualsiasi cosa potesse far riferimento agli Opeth.
Chiaramente gli ultimi anni sono i più documentati, perciò si è trattato di mettere insieme una gran quantità di materiale cercando di non perdere il filo cronologico degli eventi. Infatti i capitoli su “Watershed” ed “Heritage” sono lunghi circa il doppio rispetto agli altri, poiché comprendono anche molte informazioni su side-project e collaborazioni esterne alla sfera degli Opeth, nonché le analisi dei numerosi avvicendamenti nella line-up del gruppo. Tra i primi capitoli, quello introduttivo è opera di Filippo, mentre quello sulle origini e su “Orchid” sono miei: in quel caso, hanno aiutato molto le fanzine recuperate in Internet, ci sono diversi siti che pubblicano scansioni ad alta risoluzione di quei ‘reperti’ ormai quasi introvabili. Un paio di chicche assolute sono, in questo ambito, le rarissime pagine delle italiane “Tanathography” e “Necrotomy”, che parlarono degli Opeth in Italia prima di chiunque altro.
Sicuramente riscoprire cosa succedeva in quegli anni dalle pagine sbiadite di quei magazine ha avuto il suo fascino, considerato che il tutto seguiva delle dinamiche che sono andate ormai completamente perdute o quasi: le fanzine ci sono ancora e ci saranno sempre, anche il medium della cassetta sta rinascendo in ambito underground ed esiste anche un Cassette Store Day a quanto ne so, però i contenuti ormai si diffondono ed elaborano tramite il web e non più via posta ordinaria.
In che periodo della vostra vita e con che album avete scoperto gli Opeth? Quali sono state le vostre prime impressioni?
FP: Nelle due prefazioni individuali, prima del capitolo relativo agli esordi, lo abbiamo scritto. Entrambi studenti delle superiori, entrambi all’età di 18 anni appena compiuti. Io a fine estate del 1996, grazie a “Morningrise”, il secondo caposaldo, acquistato al Mariposa di Milano su imbeccata della recensione comparsa su Grind Zone – magazine nel quale meno di 10 anni dopo avrei collaborato. In seguito recuperai il debutto e iniziai, anno dopo anno, ad attendere febbrilmente tutte le news relative ai nuovi album.
Come detto prima, appartiene perlopiù a loro il merito della nostra espansione nei gusti musicali, comunque già abbastanza variegati anche in quella fase dell’adolescenza.
EC: Sul finire degli anni ’90 ancora i dischi non si ascoltavano in streaming né si scaricavano dalla rete in maniera massiccia come oggi. Un mio compagno del liceo portava in classe i cataloghi del Negative Mailorder e su uno di quelli devo aver letto per la prima volta il nome Opeth; poi, approfittando della connessione Internet offerta dalla mia scuola un pomeriggio a settimana, riuscii a recuperare il brano “When”, dal terzo album che all’epoca era stato appena pubblicato.
Il 3 novembre del ’99, giorno del mio diciottesimo compleanno, acquistai “Still Life” in un negozietto specializzato in heavy metal chiamato Metalmorphosis, che oggi non esiste più da tempo. L’impatto fu devastante, e “My Arms, Your Hearse”, che mi feci regalare a Natale, contribuì a farmeli apprezzare ancora di più. I precedenti “Orchid” e “Morningrise” li avrei recuperati più avanti.
Quante volte avete incontrato Mikael Akerfeldt? Che tipo di persona è e che impressione vi ha fatto?
FP: Molte, sia dopo gli innumerevoli concerti, sia per ragioni professionali. Però sarebbe simpatico raccontare il mio primo aggancio con lui… Fu nell’agosto 2001, nella VIP Area del Wacken Open Air. Il mio primo festival straniero. Sono partito da Como dentro una macchinata zeppa di amici, tra i quali l’attuale bassista dei Necrodeath e l’ex bass-player degli Ancient. Ai tempi stavo iniziando a lavorare per la carta stampata, ma non prettamente musicale; il pass per l’area riservata ai presunti VIP non musicisti – pochissimi, e si stava divinamente – l’ho ottenuto tramite l’amico che ci ha scarrozzati nel nord della Germania, oggi veterano della security nei concerti del milanese.
Cercai Mikael dappertutto, chiedendo lumi ai membri di Dark Tranquillity, Hammerfall, In Flames, o comunque alle compagini della scena svedese che senz’altro lo conoscevano bene. Gli unici a farsi vivi erano i due Martin, Lopez e Mendez, inseparabili e dediti allo ‘spinellaggio’; ai loro occhi venni scambiato per un pusher (eloquente la loro domanda, che pare rivolgessero a chiunque incontrassero: “Hai un po’ di erba, o di maria? Ne abbiamo voglia!”) e non seppero comunque rispondere al mio semplice interrogativo, “Dov’è il vostro leader?”.
Quando infine m’imbattei in Mikael incontrai una persona aperta, molto simpatica, assai socievole e umilissima. Impressione che non si è mai ridimensionata – anzi! – nel corso delle decine di volte successive in cui le nostre strade si sono incrociate.
EC: Per poter contare le volte in cui ho incontrato Mikael dovrei rivedere tutte le decine di concerti visti dal 2001 a oggi, a cui si aggiungono lo show dei Bloodbath al Wacken del 2005 e l’advance listening di “Heritage” negli studi Atlantis di Stoccolma nel 2011: di quest’ultimo evento si trovano anche diverse fotografie nel libro.
Sulle caratteristiche del personaggio ha già detto tutto Filippo poco fa: dispiace perciò leggere i numerosi commenti in rete su quanto Mikael sia un musicista altezzoso e presuntuoso, sapendo che la realtà è ben diversa. Il problema, a mio parere, risiede nella modalità in cui le notizie oggi vengono diffuse, specialmente in rete; in particolare, di recente si tende a isolare brevi spezzoni di intervista per costruire una notizia a sé, come quando il racconto di Mikael che accompagna la figlia al concerto degli One Direction, tratto da un lungo articolo sul Metal Hammer anglosassone, è diventato “Mikael recensisce per noi il concerto degli 1D”.
Un altro caso eclatante fu la frase “l’heavy metal è una merda” pronunciata da Mikael in una lunga intervista di inizio 2013; isolata dal resto della conversazione, quella sentenza ha dato modo ai numerosi detrattori di ribadire il loro punto di vista sull’attitudine del musicista. E qui si potrebbe aprire una parentesi infinita che risparmio a tutti: dico solo che, tra gli elementi che mi fanno apprezzare gli Opeth più che altri gruppi, ci sta senza dubbio la personalità down to earth non del solo Mikael ma di tutti i musicisti della band, presenti e passati.
Nel libro c’è una parte dedicata agli eredi degli Opeth, tra cui citate i Novembre. Quali sono le band che a vostro modo di vedere possono seguire il loro straordinario percorso evolutivo?
FP: Domanda difficile. Parecchie band hanno cercato, benino o male, di scimmiottarli, come espresso in un capitolo in tema. Nessuna però ha mai avuto il coraggio, o l’incoscienza, o il buon senso, di replicarne il percorso. A prescindere dai sottogeneri insiti nel metal e in termini di evoluzione e crescita mostrati nel corso di una carriera, oltre agli Opeth soltanto Waltari, Ulver, forse gli stessi Novembre e pochissimi altri possono vantare un palmares discografico tale da strofinarsi i timpani per la goduria.
EC: C’è chi cita gli Anathema, tra i pochissimi a nascere in ambienti simili (gothic, doom, death metal e affini) e ad aver seguito un percorso artistico libero da qualsiasi costrizione imposta da produttori esterni ed etichette discografiche. I Novembre a mio parere hanno sempre mantenuto molto alta la qualità dei loro lavori, ma in termini di evoluzione non sono stati altrettanto eclettici; hanno avuto sicuramente la sfortuna, al pari di molti altri, di essere nati in un paese tendenzialmente restio a dare alla musica il meritato supporto. Per il resto, mi interessa poco fare dei paragoni: se mi fermassi a quello, smetterei di ascoltare musica.
Visto che è uscito da pochissimo il nuovo album “Pale Communion”, ne approfitto per chiedervi le vostre impressioni.
FP: Album dal gustoso afflato vintage, che richiede diversi e pazienti passaggi laser affinché possa essere pienamente recepito. I metallari coi paraocchi storceranno il naso, i progster colti e dal palato fino solleveranno qualche inevitabile critica, ma coloro – e spero siano la maggioranza – che non si accontentano della solita solfa avranno di che divertirsi.
EC: Il mio giudizio su “Pale Communion” è assolutamente positivo; ho avuto modo di ascoltarlo con largo anticipo, ma anche ora che è stato pubblicato, nonostante sia stato assorbito a dovere, lo ascolto ancora quasi ogni giorno. E grazie ad esso apprezzo ancor di più il precedente “Heritage”, da molti bistrattato.
Di recente una mia amica mi ha chiesto: se “Pale Communion” lo avesse registrato un altro gruppo, ti piacerebbe allo stesso modo? A questa domanda non ho potuto rispondere. Ormai si è sviluppato un legame per certi versi affettivo che va oltre le solite critiche sullo scopiazzamento del prog anni ’70: gli Opeth sono per il sottoscritto, a livello musicale, l’equivalente di un vestito fatto su misura e che indosserei in qualsiasi momento con lo stesso piacere.
Se doveste consigliare un disco degli Opeth ad un neofita, su quale dei loro lavori cadrebbe la scelta e perché?
FP: Probabilmente uno dei primi album pubblicati dalla Candlelight, ossia “Orchid” e “Morningrise”. Erano genuini, freschi, un po’ meno articolati e forse leggermente meno ricercati nelle soluzioni, ma pur sempre spericolati. Il neofita, in quanto tale, non deve spaventarsi; quindi è bene che il suo giudizio cresca in parallelo con i progressi della band alla quale sta prestando ascolto per la prima volta. L’importante è che l’approccio e la conseguente fruizione siano impegnate: a mo’ di esempio, gli Opeth non “funzionano” durante i tragitti in auto o nel sottofondo di qualsiasi attività ricreativa!
Inutile precisarlo: anche “Le Stagioni della Luna” è un prodotto da fruire con impegno e dedizione.
EC: Dipende dal modo in cui il neofita vuole approcciarsi alla musica degli Opeth. Se mi venisse chiesto quale album può condensarne lo stile, citerei “Blackwater Park”: quel disco, a mio parere, è tra gli ultimi veramente rivoluzionari in ambito heavy metal, in quanto ha fissato le coordinate del genere, soprattutto a livello di produzione, per moltissimi altri gruppi a venire. Per me “Blackwater Park” è una sorta di Settimana Enigmistica del metal del terzo millennio.
Il rovescio della medaglia, purtroppo, è che la collaborazione con Steven Wilson inaugurata in questa occasione ha reso facile per molti parlare, soprattutto in termini dispregiativi, di una sostanziale uguaglianza tra Opeth e Wilson/Porcupine Tree. Un argomento questo che non abbiamo potuto non trattare nel nostro libro.
Infine, se invece ci si volesse documentare più a fondo, non potrei che consigliare di partire da “Orchid” e proseguire passo dopo passo fino ai giorni nostri. Magari accompagnando all’ascolto la lettura de “Le Stagioni della Luna”. :-)
Eugenio, ti chiedo di parlarmi della fanzine Advent ‘Zine: come è nata, di che cosa trattava e qual è il suo stato attuale?
EC: Advent ‘Zine è nata nell’estate 2005 e tutti i dettagli sulla nascita, la vita e la (temporanea?) morte di questo piccolo magazine autoprodotto li ho riportati nella mia prefazione al libro. Ognuno dei cinque numeri che ho realizzato (con diversi contributi, ma mi sono sempre occupato di impaginazione, stampa e diffusione in tutto e per tutto) era dedicato ad uno specifico album, con tutto quello che si potesse scrivere a riguardo. In più, infarcivo le 60 pagine di ciascuna uscita con i tipici articoli da rivista musicale: interviste, live report, news e recensioni di quei dischi che ritenevo meritevoli di attenzione. Ho fatto stampare 100 copie per ciascun numero e in qualche modo sono riuscito a distribuirli tutti, grazie a un manipolo di appassionati che ordinava una copia non appena veniva pubblicata la relativa news in rete.
Dal 2008 Advent ‘Zine è in stand-by a tempo indeterminato; avrei voluto realizzare un’uscita ulteriore nel 2011 per “Heritage”, ma non riuscii a strappare la mia intervista a Mikael in quell’occasione e alla fine non se ne fece nulla.
Nei prossimi mesi caricherò tutti e cinque i numeri della fanzine in rete; il primo è già disponibile e lo si può sfogliare virtualmente a questo indirizzo:
http://issuu.com/opethpainter/docs/adventzine1full
Domanda un po’ provocante… visto che il prezzo è praticamente lo stesso, consigliereste l’acquisto del nuovo “Pale Communion” o del vostro libro?
FP: I libri possiedono lo charme di “anticaglia”, mentre i dischi mantengono un appeal decisamente superiore… Meglio acquistare “Pale Communion” e farsi regalare “Le Stagioni Della Luna”. O il contrario. Ma forse Eugenio ha un’idea migliore…
EC: Il prezzo è lo stesso? Forse nel caso dell’edizione con Blu-ray allegato, ma il CD standard si trova a cifre ben più modiche dei 22 Euro del libro. Il mio consiglio è di acquistare ora il libro, scoprire passo per passo quale sia stata l’evoluzione della band nel corso degli anni e magari attendere le immancabili campagne mid-price della Roadrunner Records per accaparrarsi “Pale Communion” a prezzo ridotto. Sicuramente lo si potrà comprendere meglio rispetto all’ascolto distratto di banali mp3 scaricati a sbafo da internet.
Approfitto di questo spazio per chiederti, Filippo, qualcosa relativo alla rivista Metal Hammer, che ti ha visto caporedattore per diverso tempo. Avete interrotto la pubblicazione se non sbaglio a inizio 2013 e ad agosto 2014 il giornale è tornato nelle edicole.
Quali sono i motivi che hanno portato alla chiusura e che cosa resta – se resta qualcosa – della vecchia gestione di Metal Hammer in questo nuovo progetto? Ne sei coinvolto anche tu?
FP: Tutto quello che hai detto è giusto. Metal Hammer ha chiuso temporaneamente le pubblicazioni poiché si erano creati degli intoppi sotto il profilo gestionale e burocratico. A ciò si aggiunge il progressivo spopolamento dell’area metallara e rockettara italiana. Già rock e affini tendono a riscuotere magro credito tra noi italiani – caratteristica comune a tutti i paesi neolatini – poi si aggiungono altre varianti: tra chi ‘invecchia’, mette su famiglia e pertanto tende ad accantonare concerti e letture in tema, fino al parziale disinteresse delle nuove generazioni (abituate alla filosofia del ‘tutto e subito’ implementata da internet), questo genere di musica non avrà mai vita facile come può averla nei Paesi germanici, scandinavi e anglosassoni.
Oggidì, inoltre, sono pochissime le realtà commerciali che intendono investire nel cartaceo, malgrado questi il più delle volte offra un servizio qualitativamente migliore di quanto regalato di analogo su Internet. Le etichette e le distribuzioni vendono sempre meno dischi e restano gli unici a investire del contante nella pubblicità; di questo passo anche per loro i soldi vengono a mancare e si ritrovano metaforicamente dissanguati. La contemporanea carenza di altri sponsor che abbiano un certo spessore, quindi, è stata un’altra tegola che ha spinto i ‘capoccia’ a darci un taglio.
Della vecchia gestione rimane solo un grafico e qualche vecchio collaboratore, affiancati da gente più giovane. A questo giro, purtroppo, le risorse monetarie sono davvero esigue; a differenza del passato, la loro passione non viene più monetizzata. Auguro a loro tutto il meglio, perché si parla di gente che fa vibrare una passione e meritano rispetto.
Personalmente, ho preferito però imboccare altre strade professionali, oserei dire complementari. Non fa parte della mia filosofia professionale ghettizzarmi in una ed una sola casella lavorativa …
Scrivere di musica è senz’altro divertente, ti consente di affinare alcune licenze linguistiche e poetiche vietate altrove, ti permette di viaggiare e conoscere face-to-face i tuoi idoli … ma esiste anche dell’altro. È sufficiente aprire gli occhi e non temere le sfide. Se si ritiene di possedere talento e idee, se si ritiene di scrivere in maniera originale e passionale, esistono molti altri settori – e non mi riferisco soltanto a quelli impliciti nel giornalismo tout-court – entro i quali sbizzarrirsi.
In alcuni settori sono già entrato, in altri sto lavorando per entrarci da almeno tre anni. Un tempo giustificato dall’alta posta in palio e dal fatto che il tutto è ubicato su suolo estero, extraeuropeo. Per scaramanzia non intendo rivelare nulla, mi spiace.
In bocca al lupo per tutto, allora! Ti chiedo anche un’altra cosa, sempre relativa al ruolo importante che hai rivestito nella carta stampata della nostra musica preferita: uno dei difetti che possono avere le webzine è quello di dare a tutti l’opportunità di scrivere, anche a persone con scarse basi di conoscenza musicale o grammaticale. Che consigli daresti a chi vuole scrivere di musica?
FP: Quelli che hai citato sono difetti pesantissimi, presenti un po’ ovunque, senza distinzione di paesi e di lingua. E con l’avvento della “generazione SMS”, prevedo disastri…
A coloro che intendono scrivere di musica consiglio in primis di metabolizzare tantissimi album. Ognuno può specializzarsi in uno o più sottogeneri del rock e del metal, ma è bene allargare gli orizzonti anche a scuole per così dire aliene – jazz, blues, funk, pop sintetico ecc. – al fine di allenare l’orecchio. Importante, poi, ideare uno stile proprio e accattivante, che sia fruibile e riconoscibile: le imitazioni non giovano a nessuno.
Dimenticavo anche il consiglio migliore: a meno che non abbiate una conoscenza da madrelingua dell’inglese o del tedesco, scordatevi di costruire una piccola carriera o qualsivoglia forma di reddito da questa professione. Fino a qualche anno fa era ancora possibile, oggi non più.
Avete altri libri in programma, anche singolarmente, o anche solo qualche idea?
FP: Credo sia ancora presto per dirlo. Di idee ne abbiamo parecchie, ma il loro sviluppo andrebbe valutato all’interno di tantissimi contesti. Per conto della sempre attenta Tsunami nel 2010 ho pubblicato “Dr. Feelgood”, imperniato sulla stupefacente storia che ha accompagnato la genesi del succitato album dei Mötley Crüe; un tascabile, in definitiva, assai apprezzato dalla critica e dagli acquirenti. Peccato che le vendite si siano rivelate modeste…
Non vorrei passare per una persona venale o calcolatrice, ma è indubbio che il veicolo librario sia tra i meno venduti sul suolo italiano. Non sono il primo e nemmeno l’ultimo ad averlo appurato. Le vendite ci saranno sempre, ma il guadagno sarà sufficiente appena per comprarsi una minestrina. La situazione cambia quando l’opera in questione reca impresso un nome reso famoso dal gossip o dallo sport, che in Italia equivale soltanto al calcio.
Durante la tarda adolescenza non mi sarebbe dispiaciuto affatto vedermi ‘da adulto’ nei panni di un romanziere. Oggi desidero soltanto esprimere al meglio tutta la complessità delle mie idee. E concretizzarle attraverso altri formati artistici e informativi.
EC: Per quanto mi riguarda, “Le Stagioni Della Luna” resta per me attualmente un’occasione unica a cui mi sono prestato più che volentieri. Continuo a dedicarmi all’attività di grafico a pieno regime, che mi consente di sviluppare quella componente creativa legata alle immagini e alla musica (ho realizzato diverse copertine per dischi di prog italiano) a cui oggi non posso rinunciare.
Ok, l’intervista è finita, ringrazio di nuovo Filippo Pagani ed Eugenio Crippa per la disponibilità, a voi l’ultima parola!
FP: Grazie mille a te! E complimenti per le ottime domande!
EC: Grazie per il supporto! Perdona la prolissità di alcune risposte, ma questa è per noi la prima vera intervista a supporto del nostro libro sugli Opeth: ci tenevamo particolarmente a rispondere nella maniera che fosse la più completa possibile!
Sito Tsunami Edizioni: www.tsunamiedizioni.com
Recensione “Le Stagioni Della Luna” qui