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24/09/2016 : SpazioRock.it Festival (power metal edition) – Live Club – Trezzo Sull’Adda (MI)
La prima edizione del festival di SpazioRock.it (edizione power metal) si è rivelata un autentico successo grazie all’abbondante cornice di pubblico radunatosi al Live Club di Trezzo, a premiare una rassegna musicale di alto livello graziata da una lodevole organizzazione. Andare “all in” sul power metal, in un momento storico nel quale il genere sta cercando di riemergere dopo molti anni lontani dai riflettori, è stato da una parte coraggioso e dall’altra lungimirante, visto che da molto tempo mancava un momento di ritrovo così imperdibile per gli appassionati di queste sonorità. Entrando al Live Club di Trezzo, di fatto, è come se le lancette (a proposito, e chi le vede più tra smartphone e dispositivi digitali?) fossero tornate indietro nel tempo di 15-20 anni.
Gli Overtures sono stati un ottimo biglietto da visita per il festival. Validi tecnicamente, carichi, sorridenti, abili nel combinare ritmiche spesso strutturate e dalle chiare influenze prog con melodie vocali di matrice power, gli Overtures hanno sfruttato nel migliore dei modi la mezz’oretta a loro disposizione per farci immergere da subito nell’atmosfera che l’ha fatta da padrona per tutta la kermesse musicale. Tempi tendenzialmente veloci, buona abilità strumentale, assoli di chitarra e tanta tanta melodia nelle linee di canto con una voce solista potente come quella di Michele Guaitoli in grado di raggiungere le note alte richieste dal genere coadiuvata con grande enfasi dai backing vocals di due ragazze dall’aspetto decisamente gradevole. Gli Overtures, che hanno presentato brani dal nuovo album “Artifacts”, il quarto del complesso di origine friulana, sono una band da tenere d’occhio.
Gli Elvenking hanno dalla loro una personalità ed un piglio che li hanno sempre contraddistinti dalla stragrande maggioranza delle bands tricolori in ambito power e folk. Non è un caso che si siano guadagnati nel corso degli anni paragoni con altre formazioni davvero blasonate e influenti (Skyclad, Amorphis, Sentenced tra i tanti nomi), bands di melodic metal sui generis, un po’ come gli stessi Elvenking. La voce di Damnagoras non è di quelle che arrivano ad altezze siderali dal vivo e di sicuro non si tratta del tipico screamer in salsa power ma non manca certo di carisma, specialmente quando i tempi rallentano un po’ come nella splendida “The Divided Heart”. Il resto lo fanno l’attitudine e la grande carica live della band, che sfoggia nel violino di Lethien uno dei propri trademark sonori, ma è l’Elvenking sound nel suo insieme a sprigionare quel quid magnetico in brani come “The Loser”. Il pubblico, al solito, mostra di gradire. Avanti così.
Era una prova importante quella dei Domine e la band toscana ha come sempre risposto “presente” quando si tratta di tirare fuori gli artigli e mostrare di che pasta sia fatto l’heavy metal epico e classicissimo dell’act capitanato dal chitarrista Enrico Paoli e dal grande vocalist Morby (storica voce dei Sabotage). In mancanza di nuovi brani da presentare (li stiamo aspettando da quasi un decennio), i Domine puntano sull’usato sicuro, intuendo perfettamente la voglia di questa audience di risentire e cantare insieme a Morby gli storici cavalli di battaglia della formazione. “Thunderstorm”, “The Hurricane Master”, “The Ride Of The Valkyries” e “Dragonlord (The Grandmaster Of The Mightiest Beasts)” sono imprescindibili tasselli della storia dell’heavy classico tricolore, anthems con i quali molti dei presenti sono cresciuti, qui eseguiti con l’intensità e la grinta di sempre. Non nego di essere stato pervaso da una certa nostalgia durante questo show, questo tipo di true metal non si crea quasi più in studio e viene suonato di rado dal vivo. Eccellente la prestazione dell’inossidabile Morby, che nonostante le primavere accumulate dalla “golden age” del genere, possiede ancora una delle ugole più impressionanti dell’intera scena classic power. Il finale con una “Defenders” osannatissima è quasi commovente. Si aggiudicano a mani basse il titolo di gruppo che, fin qui, ha ottenuto il riscontro più caloroso dal pubblico. A quando un nuovo album? Tornerà mai in auge questo sound? Un po’ ci spero. Quando si parla di purezza del true metal non fa mai male citare i Domine. Defenders.
Gli Iron Savior sono la prima formazione straniera della manifestazione ed in un certo senso anche la prima del bill che incarna musicalmente il power metal al 100%. Il genere si è sviluppato grazie alle innovazioni sonore introdotte da una serie di gruppi storici che, di fatto, ne hanno introdotto nel corso degli anni (tra gli anni ’70 e gli ’80) alcuni degli elementi cardine. Si pensi per esempio alle vocals acute con tanto di screams di Rob Halford o al lavoro delle twin guitars degli stessi Judas Priest o alla doppia cassa degli Accept di “Fast As A Shark” fino ai chorus happy targati Helloween. Non è quindi un caso che gli Iron Savior vengano dalla Germania, considerata un po’ la patria putativa del genere e che gli elementi di cui sopra, con le dovute proporzioni (il Metal God non si tocca) rispondano tutti all’appello nel loro sound.
Piet Sielck non ha in quest’occasione al suo fianco il fido chitarrista “Piesel”, impegnato come tour manager e qui sostituito da Jan Betram dei Paragon, altro storico act teutonico storico della scena power. Il concerto ha il suo scopo principale nella promozione del nuovo album “Titancraft” (per quanto mi riguarda scopo raggiunto perchè l’ho comprato proprio in questa sede), dal quale sono suonate “The Way Of The Blade”, “Beyond The Horizon” e “Gunsmoke”, quest’ultima particolarmente riuscita con la sua ambientazione western.
L’impressione è quella di uno show divertente ma non memorabile, con le backing vocals non abbastanza in evidenza ed in generale con la sensazione che manchi qualcosa per arrivare ai livelli di eccellenza. Quel che manca di sicuro è il tempo, con la formazione teutonica amante delle tematiche sci-fi che deve salutare il pubblico dopo una cinquantina di minuti proprio quando il set stava decollando grazie a brani come “Heavy Metal Never Dies” e “Condition Red”. Solidi come la roccia.
A testimonianza del fatto che lo SpazioRock.it Festival ha davvero fornito una tavolozza ricca di tantissime diverse tinte sonore, arriva anche il power metal sinfonico dei Luca Turilli’s Rhapsody. Come ho già sottolineato in altri live reports del gruppo, è davvero piacevole constatare come Turilli abbia avuto l’intelligenza di lasciare Alessandro Conti essere sè stesso. Conosciamo bene i mezzi vocali del vocalist modenese, semplicemente una delle voci più dotate del panorama power, ma la sua indole sempre positiva e “happy” viene fuori in ogni momento di pausa tra i pezzi fornendo quel pizzico di umanità e genuinità in più ad una formazione che ha scelto, dal punto vista musicale, la via della perfezione a discapito di quella dell’improvvisazione.
Al di là dell’annoso tallone d’achille del symphonic metal, cioè l’eccessivo uso di orchestrazioni preregistrate che finisce sempre per togliere un pizzico di quell’atmosfera “tutto live al 100” che si respira in altri generi musicali, la formazione è tecnicamente eccellente, con il chitarrista Dominique Leurquin ed il bassista Patrice Guers particolarmente sugli scudi.
Lo spettacolo è davvero di alto livello, sia durante la presentazione del materiale più recente, come la sontuosa titletrack di “Prometheus” e l’ottima “Tormento E Passione”, (straordinario il lavoro vocale) che nei pezzi vecchi come “Land Of Immortals” (e mi torna un po’ di nostalgia..) o nella mazzata di “Unholy Warcry”.
Il grande problema dello show arriva sul finale, quando il grave ritardo accumulato prima di far partire il concerto, e dovuto a problemi con la chitarra di Turilli, viene fatto “pagare” al gruppo con il taglio di una decina abbondante di minuti. Con una saggia supervisione della situazione la scelta del taglio avrebbe dovuto coinvolgere un brano meno noto come “Demonheart”, che invece rappresenterà l’ultimo brano suonato, con l’assenza delle attesissime “Dawn Of Victory” e “Emerald Sword” (poste in chiusura di scaletta) a rappresentare uno dei pochi rimpianti dell’intero festival. Un antico saggio sosteneva sempre che nei festival, quando non si suona da headliners, i brani più famosi e noti non vadano tenuti per ultimi perchè più a rischio di tagli per motivi di tempo. Aveva ragione.
Alla loro prima esibizione dal vivo in Italia, i Powerwolf hanno ampiamente dimostrato di meritare il loro considerevole successo internazionale, tutto maturato nell’ultima decina d’anni, un periodo molto avaro di risultati per la scena power. In Germania, dove il gruppo gode di uno status invidiabile, la formazione è addirittura in grado di riempire arene di medie dimensioni, l’invidiabile step successivo ai locali come il Live Club, l’Alcatraz o l’Estragon. L’idea vincente del gruppo dal vivo è quella di considerare il concerto alla stregua di una funzione religiosa, come una messa heavy metal alla quale partecipare nel modo più vocale possibile. In questo senso, il frontman Attila Dorn si rivela uno straordinario mattatore e maestro di cerimonia, con una voce sempre stentorea e sicura.
Pezzi come “Blessed And Possessed”, “Amen And Attack” e “Resurrection By Erection” sono già arcinoti anche al pubblico italiano, che si lancia in un singalong contagioso che rende il live set particolarmente coinvolgente.
Lo spettacolo si rivela tale anche per gli occhi, grazie alla cura della scenografia, dal backdrop a tutti gli elementi “d’arredo” sul palco, che conferiscono quel tocco di teatralità in più all’esibizione. Poi c’è l’aspetto musicale, per nulla secondario, sostenuto dalla compattezza nella fase ritmica dei due chitarristi Matthew e Charles Greywolf, e dalla carica del sottovalutato tastierista Falk Maria Schlegel, che all’occorrenza si sbraccia come un ossesso per ottenere un ulteriore riscontro dall’audience.
Anche le parti preregistrate sono utilizzate, anche se in misura ben minore rispetto ai Rhapsody, in questo caso con cori e linee di basso, ma il fatto che la band si sbatta tantissimo sul palco, alla ricerca costante del massimo coinvolgimento del pubblico, le fa decisamente passare in secondo piano.
Quello che però piace di più di brani come “Armata Strigoi”, “Sanctified With Dynamite” o “We Drink Your Blood” è la loro innata capacità di far venir fuori l’istinto primordiale all’interazione di massa sublimato da coretti come l’irresistibile divertissement del “Hu Ha” di “Werewolves Of Armenia”. Il gruppo tornerà nella stessa location a gennaio, per un altro imperdibile concerto in compagnia dei symphonic metallers Epica. Fin qui, per responso del pubblico, intensità e completezza della scaletta “il” concerto del festival.
Gli Stratovarius rappresentano uno dei gruppi di maggiore successo della scena power symphonic, che nella seconda metà degli anni ’90 ha visto la band finlandese assurgere a livelli strepitosi con album come “Episode”, “Visions” e “Destiny”. Se molti altri gruppi del genere hanno sempre attinto la loro ispirazione dal roccioso metal teutonico, la band finlandese, al di là delle melodie vocali di una voce che negli anni d’oro ha sollevato addirittura paragoni con quella di Michael Kiske (e di un certo Jörg Michael che ha fatto la storia della “doppia cassa”), ha sempre affondato le proprie “roots” musicali nel sound di gruppi di heavy rock più sofisticato dal punto di vista strumentale, come i Rainbow del grandissimo Richie Blackmore (senza dimenticare le tastiere purpleiane del compianto Jon Lord) un altro padre del genere, e nello stile di un altro guitar hero D.O.C. come Y.J. Malmsteen.
Gli Stratovarius visti a Trezzo sono ancora una grande band, come testimoniato dagli ultimi due notevoli studio album, soprattutto l’eccellente “Nemesis”. La scaletta ha sorpreso, in positivo, molti dei presenti, grazie all’esecuzione di tante vecchie perle del calibro di “Speed Of Light”, “Against The Wind”, “Paradise ” e “Will the Sun Rise?” con un Timo Kotipelto ancora sulla cresta dell’onda dietro al microfono.
Il doveroso pegno al nuovo album “Eternal” è stato pagato con l’esecuzione di “My Eternal Dream” e “Shine In The Dark”. Il festival si chiude alla grande con un’altra manciata di classici: la tastieristica “Black Diamond”, la sempre toccante “Forever”, la gemma recente “Unbreakable” e la cantatissima “Hunting High And Low” che ha il compito di far calare il sipario sull’intero festival.
Oltre al citato Timo, l’altro autentico leader della band è il fenomenale veterano delle tastiere Jens Johansson, di recente unitosi nientemeno che ai Richie Blackmore’s Rainbow. Sì, proprio quei Rainbow, uno dei punti di riferimento musicali originari degli Stratovarius. E proprio per la teoria della circolarità della vita, non stupitevi se fra qualche anno sbucheranno nuovamente come funghi acts metal che puntano tutto sulle linee vocali ipermelodiche, sugli assoli sincronizzati tra tastiera e chitarra (o tra due chitarre) e su colate di doppia cassa. Ci siamo già passati e speriamo di tornarci. Intanto non vediamo l’ora di gustarci la seconda edizione dello SpazioRock.it Festival, perchè al di là delle code ad alcuni meet and greet (a quello degli Stratovarius abbiamo assistito anche ad una proposta, accettata, di matrimonio) non sapremmo davvero cosa criticare. Bene Bravi, bis. Il power metal è tornato. Era ora.
Di seguito altre foto della serata, tutte realizzate dalla nostra Sabina Baron.
Overtures:
Elvenking:
Domine:
Iron Savior:
Luca Turilli’s Rhapsody:
Powerwolf:
Stratovarius:
Grande Sabina foto eccezionali come sempre.