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Gioia e tripudio!! È uscito un nuovo lavoro dei maestri del gore grind, i Carcass sono tornati!!
Smazziamocela subito: i Carcass non fanno dischi brutti e questo non è da meno.
Voto: Heartwork.
Potrei tranquillamente chiuderla qui e rimandare il giudizio sulla piacevolezza o la longevità agli ascoltatori. Poiché è questo il nodo gordiano, la chiave di volta, la pietra miliare o quello che volete voi: qui è soltanto questione di gusti.
Ripartiamo dal concetto fondamentale che questa band un disco brutto non riuscirà a farlo nemmeno impegnandosi. Perché la classe, le capacità tecniche e il mestiere sono cose che non vendono al supermercato e questi signori ne hanno in quantità.
Il disco si apre con una gran bella “mazzuolata sul coppino”; l’incipit del brano omonimo dell’album è un attacco frontale che fa ben presagire per il prosieguo dell’ascolto; con il pezzo che si sviluppa bene e inserisce tutto quello che serve o quello che il mondo chiede alla premiata ditta Walker/Steer.
È un piacere tornare a sentire il cantato graffiato e graffiante di Jeff, come lo sono anche le chitarre iperdistorte e con quel tocco blues che ha sempre caratterizzato i lavori da Heartwork in poi.
Con lo scorrere dei pezzi, passando attraverso quelli già sentiti in sede di anteprime ed EP (Dance Of Ixtab e Under The Scalpel Blade), con i soliti titoli tra il creativo (Eleanor Rigor Mortis che fa l’occhiolino ai Beatles) e il gore (Flesh Ripping Torment Limited), ci rendiamo conto che qualcosa manca e che, col passare dei minuti, continua a non arrivare.
Ammettiamo pure che, nonostante l’ingresso in formazione di due giovani virgulti alla batteria e alla seconda chitarra, le teste pensanti sono quelle di due splendidi cinquantenni che, dopo aver fatto la storia del metal quando era il momento di farla, ora si trovano a tirare avanti una carretta alla luce di tutto ciò che è il mondo oggi e delle esperienze fatte.
Così ci troviamo a passare da un mid-tempo all’altro e a goderci accelerate furiose solo sporadiche, utilizzate come divertissement tra un giro blueseggiante (trademark della ditta) e un urlaccio di Jeff, con il risultato di essere soltanto ficcanti e di strizzare l’occhio a tutti i vecchi lupacchiotti metallari che non vedevano l’ora che questo disco uscisse.
La ricetta, in fondo, è abbastanza chiara e definita:
- prendere Heartwork;
- aggiungere un pizzico di blues;
- buttarci dentro un cucchiaino di sana follia;
- mescolare con la solita dose di strutture imprevedibili;
- una spruzzata di novità qui e là per almeno provarci;
- cottura lenta e cadenzata in forno.
Purtroppo il disco scorre anche fin troppo bene, ma la ricetta qui è un po’ trita e finisci per goderti sì il viaggio, ma non ci sono quasi mai sussulti sulla sedia. I riff hanno un watermark con scritto Carcass dappertutto, gli assoli sono sempre molto validi e anch’essi riconoscibilissimi, le strutture sono quelle che hanno fatto la fortuna della band, le armonizzazioni sono riconoscibilissime, timbriche e impatto sonoro sono sempre loro.
Insomma “tutto a posto e niente in ordine”, come recita l’adagio.
Qualche elemento fuori dallo stantio e del già visto e sentito c’è, per carità, ma è tutto relegato a qualche soluzione di arrangiamento o a qualche melodia un pelo diversa dal solito. Però, almeno per chi scrive, è un po’ pochino per potersi ritenere soddisfatti.
Per fare un’altra citazione, George Orwell, in un libercolo dal titolo “Memorie Di Un Libraio” parlava di “buoni brutti libri” e qui siamo esattamente in questo contesto.
Il giudizio a quest’album è variopinto e variegato, a seconda della sfaccettatura che vogliamo vedere e a seconda di chi sia quello che lo valuta. Purtroppo per voi, la recensione la sta facendo uno che ha amato alla follia la band fino a Heartwork e ha accettato Swansong. Dopodiché il ritorno con Surgical Steel era stato una ventata di felicità e la dimostrazione che i Carcass c’erano ancora ed erano ancora genuinamente squinternati, capaci di far musica e proporci qualche colpo che poteva farmi saltare di gioia sulla sedia.
Torn Arteries (che gode di un artwork molto molto bello e che mi ha ricordato i dipinti dell’Arcimboldo) è un buon brutto album. Una buona raccolta di mid-tempo che farà felici tanti ragazzi sulla quarantina (e magari qualche cosina di più), da mettere in collezione.
Sicuramente migliore della produzione di molti gruppi tutt’ora in circolazione e che sono all’apice della loro carriera magari, inferiore a un capolavoro come il già citato Heartwork ma anche a un Surgical Steel, che invece godeva (probabilmente) di anni di concepimento e di idee nel cassetto, questo lavoro è in fondo un lavoro troppo soggettivo per un semplice voto dall’1 al 10. Sicuramente piacerà a chi avrà voglia di sentirsi nuove composizioni dei chirurghi inglesi, piacerà anche a qualche giovane a cui queste sonorità tipicamente “loro” sembreranno nuove o comunque ancora fresche. Se invece cercate qualcosa di nuovo o innovativo o anche solo diverso, probabilmente rimarrete delusi. Ma continuerete ad ascoltarlo lo stesso…
Torn Arteries: un gran buon brutto disco.
Voto: Heartwork.