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In una buia e ventosa serata milanese dove il cielo minaccia pioggia e le autostrade combattono contro il sovraffollamento, l’Alcatraz apre le porte all’America, quella un tempo, “Troppa sui manifesti” come cantava Cutugno e che oggi ci porta a conoscere meglio due formazioni di musicisti forse ingiustamente sottovalutate. Stiamo parlando di L.A. Edwards e Rival Sons naturalmente.
Con una puntualità sicuramente insolita per un concerto rock ma sicuramente apprezzata dai presenti, iniziamo il viaggio nella California con gli L.A. Edwards che ci regalano tre quarti d’ora di folk rock in pieno stile Lynyrd Skynyrd, impreziosita dal batterista Jerry Edwards in grande forma e da un suono sicuramente più leggero del quintetto che seguirà ma comunque piacevole e consigliatissimo agli amanti di queste sonorità.
Mezz’ora di pausa per gli scalpitanti astanti che hanno scaldato la voce intonando le canzoni del gruppo californiano, attendendo trepidanti l’arrivo della grinta dei Rival Sons, destinata ad invadere l’Alcatraz con altrettanta puntualità.
Gli applausi si sprecano già durante l’entrata mai esageratamente pomposa del gruppo di Long Beach, che apre le danze con “Mirrors” direttamente dal loro ultimo lavoro Darkfighter. Per dare giustizia anche ai precedenti dischi Feral Roots e Great Western Valkyrie si prosegue con brani divenuti ormai classici irrinunciabili del gruppo come “Do Your Worst” ed “Electric Man”, in cui Jay Buchanan spiazza i presenti con un urlo dei suoi, dimostrando, se ce ne fosse stato bisogno, ancora una volta, le sue capacità di interprete dalla rara intensità vocale.
Dopo aver ascoltato le note di una meravigliosa “Rapture” che dal vivo rende decisamente meglio che in studio, il pubblico torna ad esaltarsi mentre i Sons spingono sull’acceleratore con l’ennesimo classico “Open My Eyes”.
Un momento di protagonismo per l’ottimo batterista Michael Miley mantiene viva la platea con un solo che sfocia inesorabilmente nella canzone più attesa di tutte. Con “Pressure And Time” riascoltiamo con piacere le radici anni 70 dei Rival Sons, che emergono con decisione in questo brano che forse meglio di ogni altro certifica il loro amore per i Led Zeppelin e le loro influenze.
L’entusiamo generato da “Feral Roots” è destinato a lasciare il posto al brano meglio eseguito tra quelli prelevati da “Darkfighter”. L’esecuzione di “Nobody Wants To Die” è rock allo stato puro, capace di far ballare ed agitare anche agli spettatori più rigidi (fortunatamente in netta minoranza). C’è ancora spazio per i virtuosismi della chitarra di un inossidabile Scott Holiday, prima di procedere con gli ultimi brani del concerto che sul finale non si dimentica certo di regalare emozioni.
Lo fa con la consueta classe che appartiene ai Rival Sons che scelgono di preferire la semplicità ai fuochi d’artificio. Jay Buchanan entra sul palco accompagnato da una sola chitarra acustica e dopo un doveroso e tragicamente contemporaneo appello antibellico, arpeggia le note di “Shooting Stars”. Questa versione minimale ricorda quella che il cantante aveva già realizzato durante la quarantena qualche anno prima, quando le canzoni ci tenevano compagnia tra le mura domestiche. Il canto di pace si unisce a “Mosaic”, in cui il gruppo torna a riunirsi in preparazione del gran finale che non poteva che realizzarsi con “Keep On Swinging”.
Il gruppo di Long Beach conclude un concerto coinvolgente ed intenso, che diverte, coinvolge ed emoziona. Nonostante là fuori le guerre non accennino a placarsi, il sentimento che lega tutti noi attorno alla musica può aiutarci a ricordare che, parafrasando i testi dei Rival Sons “We’re Only Here For Each Other”. Qualcuno molto tempo fa cantava “You may say I’m a dreamer but I’m not the only one” e ora spetta a tutti gli esseri umani che popolano questa terra dimostrare a John che dopotutto non fosse il solo a sognare un mondo pacifico.