Visualizzazioni post:418
Recensione scritta da René Urkus.
Ha senso, al giorno d’oggi, con tutte le possibilità date dall’ascolto digitale in rete, più o meno legale, pubblicare una raccolta di brani ri-registrati? La risposta credo sia “no” per la maggior parte delle formazioni metal, soprattutto quelle di spicco. Ma se a proporre un disco del genere è un gruppo relativamente sconosciuto (almeno in questa parte d’Europa), che nel corso degli anni ha cambiato praticamente tutta la formazione, e che vuole proporre a un pubblico più vasto il proprio repertorio più datato, magari la cosa acquista un senso.
I Diaboł Boruta, che prendono il nome da una figura del proprio folklore nazionale, sono una delle formazioni di punta della scena folk polacca, ed esteuropea in genere: mi accostai a loro in passato, quasi per caso, con dischi come il debutto Stare Ględźby, del 2015, o ancora Czary, del 2019, e così ho accolto volentieri la possibilità di recensire questa loro raccolta. In generale i brani sono prodotti in modo più professionale e già questo vale l’impresa.
Nella scaletta, all’aggressiva e serrata “Czary” si oppone “Wietrznik”, che ha un impianto più classico, con parti acustiche ma anche sonorità che rimandano al metal tradizionale; tribale, ma senza essere danzereccia (nonostante il ritornello) “Stare Gledzby”. Il brano più contaminato è probabilmente “Ziemia”, che passa da momenti acustici ad altri pagan, intrattenendosi anche su lidi quasi rock. Un po’ confusa, invece, “Bylem Ongi Debem”, che passa da momenti parlati ad altri blackened. Ha qualcosa degli Arkona meno violenti “Srebrne Zmije”. Di “Sobotki” convince più che altro il finale, animato nuovamente da suoni genuinamente pagani, sullo stile degli Skyforger.
Se in voi si agita ancora l’onda del pagan metal di venti anni fa, e se siete curiosi nei confronti delle scene nazionali meno note, i Diaboł Boruta potrebbero ben fare al caso vostro.