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Partiamo da un presupposto fondante: ogni concerto è una esperienza a sé stante, foriera di sentimenti estremamente diversi per chiunque vi prenda parte. Ci sarà sempre il navigato ed attempato spettatore che, pur apprezzando, ricorderà con nostalgia i fasti d’un tempo (lo facciamo anche noi, cari metallari quarantenni, non nascondiamoci dietro ad un dito, N.d.R.), così come il giovane adepto estasiato dal concerto di un gruppo che gli ha già rubato una parte di cuore, o addirittura chi assiste al suo primo evento in assoluto e non riesce a contenere il proprio entusiasmo.
Da qui in primis la scelta di non assegnare alcun voto a questa uscita, sarebbe mero esercizio fine a se stesso. In secondo luogo, l’urgenza è quella di prendere The Final Sermon per quel che è, ovvero un tributo ad un grande cantante che non avremo più il piacere di gustare, a prescindere dalla prova vocale del comunque indimenticabile Mike Howe, perché sicuramente ci saranno state serate migliori sotto ogni aspetto, da quello tecnico a quello emotivo. Quella che abbiamo oggi a disposizione è una esibizione dei Metal Church in Giappone nell’Anno Domini 2019, uscita nel luglio 2024 per la Rat Pak Records, ormai da molti anni spalla della formazione di Seattle quando si parla di uscite discografiche.
Questa attestazione sembra ancora una volta voler suggellare l’amore di Kurdt Vanderhoof per onestà ed integrità musicale, e non vi sarà difficile trovare sbavature e imprecisioni; insomma, un “live” nudo e crudo il più possibile naturale (sovra-incisioni se proprio non se ne può fare a meno, più che altro per necessità dovute alla scarsa qualità del prodotto di partenza, ma non sembra questo il caso).
Inutile girarci intorno: la scaletta è pressoché identica a quella che i Metal Church hanno proposto dal ritorno di Mike alla sua triste dipartita, interazioni col pubblico comprese (anche se in The Final Sermon c’è spazio esclusivamente per la musica, eventuali presentazioni sono state estromesse dal mix finale), quantomeno per quanto riguarda i classici dei primi cinque album. Ma anche da XI non manca “Needle & Suture”, presente dall’uscita del rientro nei ranghi di Howe, mentre questo tour vede proposto il terzetto iniziale di Damned If You Do, intervallato ai classici, all’epoca in fase di promozione.
Tra le sempreverdi, non possono mancare “Fake Healer”, “Human Factor”, “Date With Poverty”; e ancora “Gods Of Second Chance”, col finale che il gruppo riesce sempre a completare solo dopo un lasso di tempo variabile, una volta ottenuto il silenzio del pubblico a seguito della dovuta ovazione, pensando che il brano sia terminato.
Ma abbiamo anche “Start The Fire”, dove il ritornello viene ceduto alle voci di Vanderhoof e Steve Unger, l’immancabile “Watch The Children Pray”, dove ancora una volta Mike gioca al karaoke col pubblico (non credo di aver mai sentito dal vivo il suo ritornello realmente cantato da Howe, solo un invito ed una imbeccata al pubblico per cantare con lui, N.d.R.). Se “No Friend Of Mine” è un altro dei grandi appuntamenti con Mike, anche in The Final Sermon l’unica concessione al primo omonimo album è “Beyond The Black”, per chiudere con IL brano dei Metal Church, che dovrebbe categoricamente essere ricompreso in ogni lista da isola deserta che si rispetti: “Badlands”, pelle d’oca come al primo ascolto, pur con suoni che non rendono del tutto giustizia alla sua maestosità.
Essendo inguaribili romantici, questa testimonianza ha il sapore del sentito ricordo di un amico scomparso, compagno di mille avventure e, a detta di chiunque abbia avuto modo di conoscerlo, una persona (all’apparenza) solare e capace di regalare un sorriso a tutti.
Ci mancherai sempre immensamente, caro Mike.