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Prolifici, questo il primo aggettivo che risuona in testa se si pensa ai Satan (nota inutile del giorno: penso sempre alla locuzione di abatantuoniana memoria “Vade retro, Saragat” quando mi approccio al gruppo, senza un motivo preciso, ci tenevo a condividerlo, N.d.A.), dalla ripresa a tutti gli effetti nel 2011 ad oggi. Songs In Crimson è il quinto album da Life Sentence del 2013, settimo se consideriamo Court In The Act e Suspended Sentence, una media non indifferente per gli alfieri dell’heavy metal britannico, che rinnovano la fiducia nella Metal Blade, dal 2018 punto di riferimento discografico del quintetto (ma un plauso va sicuramente anche alla Listenable, che diede fiducia alla storica formazione sia nel 2013 che nel 2015). Senza contare che Earth Infernal è datato aprile 2022, a riprova della proverbiale produttività degli inglesi.
Se Ramsey e English, con gli Skyckad, sono discograficamente fermi al 2017 e Taylor, con i Warrior, si è limitato ad un album nel 2020, Tippins e Ross dividono il loro tempo fra gli impegni di uno dei quintetti principe del metal britannico – chi se ne frega della notorietà che certamente non va di pari passo con altre ben più note formazioni, questo è un dato di fatto – e, rispettivamente, Tanith e Blitzkrieg. In particolare Ross, che non pago di Songs In Crimson ha rilasciato anche Blitzkrieg giusto sei giorni prima, in questo settembre 2024.
Se il detto “squadra che vince non si cambia” ha una sua valenza – tralasciando la formazione ancora una volta immutata – tocca ancora ad Eliran Kantor esprimere visivamente le idee dei Satan, con una copertina che possiamo facilmente definire da manuale; lo stile oltretutto si adatta da sempre all’immaginario ed alle atmosfere di lor signori, e non è un caso se dal 2013 l’artista israeliano, naturalizzato tedesco, si occupi delle copertine dei britannici.
Se è vero che “la lingua batte dove il dente duole”, quel che qualsiasi sostenitore di qualsivoglia gruppo teme maggiormente è quale sia stato l’approccio alla materia: saranno rimasti fedeli al loro stile o avranno sperimentato? Ritroveremo le stesse soluzioni riproposte in maniera pedissequa, oppure ci sarà varietà, se non nel medesimo gusto, quantomeno in termini di accompagnamento ritmico ed arrangiamenti? Detto tra noi, son le stesse domande che taluni scribacchini – fra cui chi verga queste righe – continuano a farsi ad ogni confronto con il disco di turno, spesso con le stesse parole (compito a casa: prendete le vecchie recensioni del vostro autore preferito, se ancora ne avete uno, e bacchettatelo per la riproposizione delle stesse frasi. Son pochi gli eletti in grado di non ripetersi – quasi – mai, N.d.A.).
Non si riesce a far a meno di citare le parole con cui Tippins ha accompagnato la campagna promozionale di Songs in Crimson: “voglio imprevedibilità nella musica, sia come consumatore che come creatore. Voglio che la musica sia un animale selvatico senza guinzaglio. Spensierato. Spericolato. Sono felice di accettare qualsiasi danno collaterale che possa verificarsi, come note mancate o ritmi ballerini. Voglio sentire le persone che ci provano, anche se non sempre ci riescono. È il provare che è importante. Per le mie orecchie questa è musica. Il tocco di una mano umana.” Perché riproporle? Per spiegare a quanti non sono avvezzi a taluna sporcizia sonora che questo è un album suonato, e le imprecisioni e le imperfezioni che si sentono sono dovute alla scelta asettica di non usare l’incredibile coppia “Ctrl+C Ctrl+V” (e.g. notate che le due chitarre non sono sempre perfettamente sincronizzate? N.d.A.).
L’accoppiata Tippins-Ramsey rimane comunque un’invincibile armata, potente e capace, con il suo susseguirsi a catena di partiture sempre differenti ed armonizzate, ma capace di proporre ritornelli che non vi sarà difficile fischiettare anche a giorni di distanza dall’ultimo ascolto.
Una lezione sicuramente la forniscono anche stavolta: come non esagerare con il minutaggio. Dieci brani per 45 minuti di musica, il giusto compromesso che non annoia e non limita il musicista. Senza perdersi in verbose disamine traccia per traccia, bastano poche citazioni: lo spumeggiante e diretto inizio con “Frantic Zero”, “Martyrdom” ed il singolo “Turn The Tide” puntano su ritmi sostenuti, mentre la restante scaletta si muove tra mid tempo e metalliche cavalcate, ma arrangiate magistralmente e contagiose – lasciate che il vostro collo faccia il suo corso, nel caso preparate unguenti e medicamenti – tanto che vi sembrerà più che ordinario aggirarvi per le strade canticchiando della meretrice di Babilonia ed argomenti affini. A proposito, non temete, chiodo e borchie che vi si sono materializzate addosso fanno parte del pacchetto completo, trattamento consigliato a chiunque apprezzi la Musica, e la maiuscola non è casuale.
Ma “non c’è rosa senza spine”: anche il più accanito fanatico del gruppo potrebbe alle volte chiedersi se un aggiornamento nelle ritmiche di Taylor non gioverebbe al prodotto finale, perché non vi sarà difficile riconoscere gli stessi schemi e canticchiare le sue rullate prima ancora che arrivino. Qualche effetto sui suoni dedicati agli assoli lascia un minimo perplesso – dicesi eufemismo – già lo si percepiva col primo singolo. Ma suvvia, non lamentiamocene quasi fosse un vero problema, è solo una puntualizzazione ad uso esclusivo di chi è attento a questi particolari.
Al grido di battaglia dei Satan rispondiamo ancora una volta con forza, certi che – l’ultimo, assicurato – detto del giorno, “la classe non è acqua”, sia una verità assoluta e difficilmente confutabile nel loro caso, quantomeno fino ad oggi. Che il rito prosegua!