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La natura può essere crudele e selvaggia ma toglie il fiato per la bellezza e le emozioni che sa scatenare. Queste parole calzano perfettamente anche per definire la forza della musica e in particolare quella degli Hamferð, così come il fascino della loro terra d’origine: le Isole Fær Øer, che nella natura meno contaminata sono immerse. Men Guðs Hond Er Sterk è un’opera evocativa come poche, che ha come grande protagonista anche l’acqua che circonda e condiziona la vita dei pochi abitanti di questo arcipelago lontano dalla frenesia e dallo stile di vita delle città più popolose. Gli Hamferð non hanno bisogno di comunicare nella lingua più diffusa per trasmettere la loro unicità, e questo forse spiega la ragione per cui il gruppo utilizza da sempre l’idioma locale, il faroense. Il sound della formazione è un doom death metal piuttosto distintivo, in primis per la peculiare timbrica vocale di Jón Aldará (Iotunn, Barren Earth), davvero rara nel panorama metallico, capace di sprigionare emozioni forti sia nella sua versione harsh che in quella pulita. Il gruppo è arrivato al suo terzo lavoro, che esce a ben sei anni dal precedente “Támsins Likam”; i capitoli discografici precedenti erano un po’ più estremi dal punto di vista sonoro, con un approccio non lontano dal funeral doom più lento e monolitico, in particolare nell’EP di debutto, mentre dal primo studio album “Evst” aumenta la presenza delle clean vocals. All’interno di Men Guðs Hond Er Sterk gli Hamferð accentuano il loro lato più atmosferico con un’ulteriore piccola iniezione di
dinamismo, ovviamente restando sempre in territori sonori familiari agli appassionati di band come My Dying Bride e Swallow The Sun. Un’altra scelta audace e controcorrente ha spinto la formazione a registrare il disco praticamente live in studio, riducendo al minimo le sovra incisioni, un altro elemento che aumenta ancor di più la sensazione di spontaneità del lavoro. Durante l’ascolto di quest’opera, la sua forza evocativa è tale che c’è davvero la percezione di essere davanti a musica in grado di dar voce alle impressionanti onde del mare, che vanno a sbattere contro le rocce o che possono sommergere qualsiasi cosa. In un ambito musicale del tutto differente, quello dell’opera lirica, una sensazione simile, quella del moto ondoso, l’ho provata ascoltando a teatro e su disco il “Peter Grimes” di Benjamin Britten, ambientato in un villaggio di pescatori sulla costa orientale dell’Inghilterra.
Men Guðs Hond Er Sterk è un concept ispirato a una delle più grandi tragedie legate alla caccia alla balena nelle Isole Fær Øer, avvenuta a Sandvík il 13 febbraio del 1915. Il tempo era terribile e durante la caccia due barche si rovesciarono. I due equipaggi ammontavano a quindici uomini. Tutti annegati tranne uno. Dieci di Hvalba e quattro di Sandvík. Bellezza e orrore convivono in modo armonioso e struggente tra i solchi di Men Guðs Hond Er Sterk, un lavoro così emozionante e coinvolgente che è in grado di mettere in secondo piano ogni eventuale considerazione sulla (decisamente buona) tecnica esecutiva degli Hamferð e sulla (notevole) produzione realizzata nei Fascination Street Studios in Svezia. L’opera è aperta dai riffoni “tremolanti” di “Ábær”, inizialmente dominata dal growl profondo del vocalist, ma è il passaggio alla timbrica pulita a far raggiungere il livello successivo al brano. La padronanza con cui Jon trattiene le note in al termine del chorus è impressionante, mentre il testo riprende il dramma di chi affronta una tempesta in mare per sopravvivere, con una barca a remi, convivendo con la paura, la malinconia e i dubbi ma con la perseveranza e la volontà di non cedere anche se la morte ti saluta ovunque e potrebbe arrivare in qualsiasi momento. “Rikin” è disseminata di melodie chitarristiche memorabili con Aldará nella sua veste harsh fino al ritorno al cantato pulito; il fraseggio dei testi, interpretati nella lingua delle Fær Øer, è davvero affascinante, un’altro episodio che alterna crudezza e melodia. “Marrusorg” è di un altro livello, per intensità e capacità di convogliare emozioni, frutto di una performance vocale memorabile ma anche di una sensibilità musicale, con riff dosati in modo encomiabile in contrasto con le parti arpeggiate. Il feeling è quello che si respira in un luogo fuori dal mondo e dal tempo, in cui non esistono sovrastrutture e filtri perchè tutto è più crudo e reale. Il testo di questa composizione descrive il tentativo di un genitore di evitare di affrontare la morte del figlio, immaginato come l’eroe di un regno sottomarino, il dolore che inonda il genitore quando questa fantasia viene spazzata via dall’acqua è terribile e il video ufficiale cerca di rappresentarlo utilizzando una figura materna davanti a uno dei dolori più grandi immaginabili. “Glæman” è lenta e immersa nella malinconia di delicate chitarre pulite, la performance di Jón mostra un controllo del suo strumento eccellente e sempre dando l’impressione di un canto naturale e mai forzato o impostato, quasi a dare una voce alle anime in pena coinvolte in questo dramma inenarrabile. Con “Í Hamferð” si torna a suoni più pesanti, con una parte iniziale lenta ed evocativa prima di scatenare una tempesta nella seconda parte, e qui la voce compie il processo inverso rispetto ai primi brani, diventando più harsh, in sintonia con il comparto sonoro. “Fendreygar” si schiude nuovamente su melodie minimali molto malinconiche – gli Hamferð utilizzano anche in modo calibrato ma intelligente sottili tastiere, mai invadenti – con Aldará a mostrare ancora una volta la sensibilità della sua interpretazione prima di un refrain che gli consente di mettere in mostra le doti del suo stentoreo mezzo vocale.
Fin qui gli Hamferð non si sono ancora esibiti sul fronte più “funeral”, che arriva impietoso nella potenza devastante di “Hvølja”, un ultradoom rallentato con vocals davvero brutali e versi memorabili:
“Preghiera fuori dal tempo
Alle onde ruggenti
Se devi prendere ancora qualcuno
Prendi me”
La titletrack che conclude l’opera, è uno strumentale lento e malinconico, che ha in sottofondo il suono del mare, il tutto per accompagnare una voce proveniente da una vecchia registrazione di un’intervista. Si tratta dell’unico sopravvissuto della tragedia di Sandvik, che per qualche minuto ripercorre quell’esperienza, la frase Men Guðs Hond Er Sterk, utilizzata come titolo dell’album, che significa “Ma la mano di Dio è forte”, è sua, e allude alla forza divina che lo ha fatto sopravvivere in condizioni divenute impossibili.
Ci sono dischi che intrattengono divertendo e ci sono concept album in grado di musicare una storia tragica realmente accaduta, Men Guðs Hond Er Sterk è un’esperienza fortissima, imperdibile per ogni cultore di doom death metal alla ricerca di un lavoro in grado di coniugare la crudeltà della natura con il fascino indescrivibile della musica più malinconica e dolorosa. Brutalità e bellezza. Gli Hamferð ci hanno accompagnato in un indimenticabile viaggio oscuro tra la vita e la morte.