INBORN SUFFERING – Pale Grey Monochrome

Titolo: Pale Grey Monochrome
Autore: Inborn Suffering
Nazione: Francia
Genere: Death Doom
Anno: 2025
Etichetta: Ardua Music

Formazione:

Emmanuel Ribeiro – Basso
Thomas Rugolino – Batteria
Stéphane Peudupin – Chitarra
Sebastien Pierre – Tastiere
Laurent Chaulet – Voce, Chitarra


Tracce:
  1. Wounding                               01:09
  2. From Lowering Tides           10:43
  3. Pale Grey Monochrome       11:25
  4. Tales from an Empty Shell 13:02
  5. Of Loss and Despair             02:15
  6. The Oak                                   10:47
  7. Drawing Circles                     07:32

Voto del redattore HMW: 6,5 / 10
Voto dei lettori: 8.5/10
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Visualizzazioni post:239

Vi ricordate quando eravate giovani (magari lo siete ancora, ma se siete un po’ più “agé” vi ci ritroverete) e, almeno una volta a settimana andavate a giocare a calcetto con gli amici?
Non facevate i tornei, perché in fondo eravate tutti medio-scarsi e si andava a giocare per il gusto di disfarsi con gli amici, giocando per un’oretta.

Con quella tremenda cosa del “facciamo i turni in porta” che era una roba drammatica perché nessuno era buono in porta.
Per cui si tiravano delle sassate devastanti, tanto quello di turno mediamente si scansava perché aveva paura di prendere una pallonata devastante in faccia o altre parti intime.

Era una figata no?
Sgroppate sulla fascia. Missili terra aria sparati in cielo. Tackle mediamente ruvidi, perché eravate amici. Il dolore alle articolazioni a fine partita. Quel tocco di classe che vi capitava ogni tanto (specie se, come me, avevate due ferri da stiro al posto dei piedi) e la gioia nel vincere anche solo per la birra scommessa con gli avversari. Che erano gli stessi tutte le domeniche.

Ebbene, pensate di rifare la stessa cosa oggi. Che succederebbe?

Niente, che alla soglia degli anta (o anche dopo, come il sottoscritto) sarebbe una scena imbarazzante.
Panze oltre il limite, corse che manco quelle per accaparrarsi la cassa libera al supermercato, tattiche inesistenti, buchi a centrocampo. Solo le sassate da metacampo rimarrebbero le stesse credo. Ma soprattutto una stanchezza singolare, che vi trascinereste per almeno un paio di giorni per recuperare.

Ecco, questo disco degli Inborn Suffering è un po’ la stessa cosa. Stanco.
Con le debite proporzioni, ci mancherebbe.

Che i nostri francesi non fossero dei fulmini di guerra lo si sapeva. Già passarono 6 anni tra il primo e il secondo lavoro, ma qui siamo a 13, con uno iato in mezzo altrettanto importante.
Riformatisi nel 2023, forse ringalluzziti dalla ristampa del primo e rivisto lavoro, tornano in questo inizio d’anno con un disco nuovo di zecca.

Ero uno dei pochi che i primi due dischi li aveva apprezzati parecchio, sin dal primo Wordless Hope del 2006, avevo sentito qualcosa che li rendeva interessanti.
Certo, derivativi, ma con quel quid tale da giustificare un ritorno in cuffia più frequente di quanto altre band siano state in grado di fare. Pur pagando in originalità rispetto ai mostri sacri cui si ispirano (e i nomi li conosciamo tutti : My Dying Bride / Paradise Lost / Anathema), riuscivano nell’intento di non plagiare e a ritagliarsi uno spazio meritevole nella scena.

Una certa dose di drammaticità e un’epica notevole le carte migliori nel loro mazzo, coadiuvate da una capacità compositiva a tratti notevole, spinta da soluzioni di arrangiamento intriganti ed interessanti. Per l’epoca.

Questo disco si può riassumere descrivendovi l’ultima traccia, Drawing Circles.
Una canzone ben suonata, ben arrangiata, drammatica e coinvolgente, ma (ecco che ci arrivo) fuori tempo massimo.

È certo piacevole all’ascolto, ma risulta sul lungo un po’ piatta, senza picchi, dove la stessa formula viene “stretchata” e tirata fino alla fine, senza quei cambi e quegli spunti che potevano essere presi per dirigere il suono e il pezzo altrove. Come un giocatore alla soglia del ritiro, magari un po’ sovrappeso, coi piedi buoni, che magari ti fa il lancio perfetto, col contagiri, ma che non corre più come una volta.

I nostri si sono ritrovati e si sono decisi a dar sfogo a quella voglia di scrivere canzoni che gli era tornata, perché l’urgenza compositiva non è qualcosa che si possa reprimere, però con 15 anni di più sul groppone, dove viene a mancare lo slancio della giovane età, la voglia non è la stessa, ma soprattutto tu, compositore, sei cambiato. Non sei più lo stesso di una volta.

Il risultato finale è comunque apprezzabile (e qui le debite proporzioni con il racconto iniziale), perché è un disco ben fatto, ripeto, comunque piacevole e che non sfigura certo nella discografia dei francesi, ma che risulta ancorato a un tempo che è un po’ passato. In una scena che propone qualcosa di diverso e che, soprattutto, non fa sconti.

Di fatto, se siete tra i pochi che hanno apprezzato questo gruppo, probabilmente non rimarrete delusi. O almeno solo in parte.
Diversamente temo che la scena death doom mondiale offra esempi fulgidi (come questo) di come comporre un album moderno, fresco, energico, ficcante e al passo coi tempi.

Un gradito ritorno, sperando però in una maggiore ispirazione futura.

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